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Mario Vargas Llosa è un “immortale” di Francia, la cerimonia ufficiale si tiene giovedì prossimo, un paio di giorni fa, come ha scritto il figlio Alvaro su Twitter, ha messo “un primo piede” nell’immortalità, con una visita a porte chiuse all’Accademia francese nella quale ha letto agli altri accademici il discorso di settimana ventura. Gli è stato poi chiesto di improvvisare una discussione su una parola, un lemma ad alta gradazione e di sapore andaluso, “Xeres”. In Spagna per un mese abbondante Vargas Llosa è stato protagonista abbastanza suo malgrado delle pagine dei quotidiani, a causa della sua fine della sua storia d’amore con Isabel Preysler. Una vicenda che aveva dato scandalo quando aveva avuto inizio, alle soglie degli ottant’anni di Vargas Llosa, e che è finita sotto un bombardamento di flash di macchina fotografica. Ora che si avvicina la cerimonia francese la stampa spagnola risarcisce Vargas Llosa di un mese di pettegolezzi con due grandi interviste, una per El Paìs e una per El Mundo dove la domanda su Isabel non manca ma è giustamente periferica. La grande stampa spagnola celebra un titano della letteratura spagnola che entra nel tempio della letteratura francese, pur senza aver mai scritto in quella lingua. Un caso “culturale” che però è perfettamente coerente con la traiettoria del grande scrittore peruviano: per cui Parigi era, sin da giovane, una sorta di mecca intellettuale, dove vive per alcuni anni con la prima moglie, Julia Urquidi, la “tìa Julia” de La zia Julia e lo scribacchino, il romanzo con cui Vargas Llosa conferma la straordinaria vena comica che aveva scoperto con il precedente Pantaleon e le visitatrici. Vargas Llosa ha sempre spiegato che il suo modello di romanziere è Flaubert, il suo libro della vita Madame Bovary. Vargas Llosa, come racconta lui stesso, diventa davvero scrittore solo in Francia ed è lì che si scopre meno solo: che incontra lo sguardo di Cortazar, Carpentier, Marquez.
Anche quando deve ripercorrere la sua carriera di intellettuale pubblico, gli anni passati (come tutta la sua generazione) a simpatizzare per l’esperimento cubano e gli anni in cui (come uno spicchio della sua generazione) se n’è pentito, infine l’approdo a un liberalismo che conosce infinitamente meglio del socialismo abbozzato di quando scarrocciava con gli altri autori del “boom” nelle rapide della storia, i suoi riferimenti sono francesi. Il suo è un passaggio da Sartre a Camus, e poi a Raymond Aron e Jean-François Revel, pensatore oggi in buona parte dimenticato ma importantissimo per le culture anti-comuniste negli anni Settanta e Ottanta.
Interrogato su quali siano i romanzi che pensa gli sopravviveranno, Vargas Llosa fa due titoli sulla cui “immortalità” non c’è alcun dubbio, cioè Conversazione nella Cattedrale e La guerra della fine del mondo, di cui avevamo parlato anche qui. Quest’ultimo è un romanzo fondamentale per provare a capire la politica latino-americana e il “populismo” che purtroppo tanto la segna, se non ci si accontenta delle spiegazioni più trite.
Non solo i romanzi di Vargas Llosa sono intrisi di elementi biografici - per stare solo a quelli nei quali sa farci sorridere, se non è apertamente autobiografico come La zia Julia il più recente Avventure di una ragazza cattiva, strepitosa soap opera, è in parte ambientato nella Parigi che Vargas Llosa aveva conosciuto da giovane - ma lui si è più volte e generosamente raccontato. Ne Il pesce nell’acqua, autobiografia e diario della campagna elettorale del 1990, in cui si candidò alla presidenza del Perù (era l’epoca in cui l’oggi esecrato “neoliberismo” si nascondeva dietro gli scrittori: Havel a Praga, Vargas Llosa a Lima), e anche ne Il richiamo della tribù, un'autobiografia intellettuale scritta sommando biografie altrui: Adam Smith, Ortega y Gasset, Hayek, Popper, Berlin, Aron e Revel. E’ un libro che avrebbero dovuto leggere di più non solo gli ammiratori dei suoi romanzi, che in linea di massima tendono a considerare il Vargas Llosa “politico” un traditore reazionario, ma anche i liberali, i quali, ahinoi, leggono poco ma in quelle pagine avrebbero trovato, nella prosa di un grande scrittore, una limpida ricostruzione di cosa possa significare la parola “liberalismo”.
Il libro si spiega proprio col primo capitolo, quello dedicato a Smith. Ortega, intellettuale a tutto tondo e camaleonte liberale, non poteva mancare; gli altri sono autori con cui Vargas Llosa ha dialogato, più o meno direttamente, nel proprio tempo e ragionando sulle questioni del proprio tempo. Memorabile, fra tanti, l’aneddoto di una cena nella quale Margaret Thatcher si offrì a un plotone di intellettuali. A tavola, Naipaul, Larkin, Pritchett, Tom Stoppard e altri tipi così, incluso Isaiah Berlin, strepitoso scrittore di storia delle idee ma anche pettegolo feroce. A fianco dell'ospite d'onore sedeva proprio Berlin che, appena se ne fu andata, “sintetizzò molto bene l'opinione della maggioranza dei presenti: «non c'è nulla di cui vergognarsi». E anzi, pensai io, c'è di che essere orgogliosi di avere un premier con un tale temperamento, una tale cultura e tali convinzioni”.
In questa galleria di contemporanei, Smith è l'intruso che spiega il tutto. È l'autore della Ricchezza delle nazioni che disegna i confini del liberalismo al quale lo scrittore peruviano aderisce. Per capire come le persone facciano a stare assieme senza che qualcuno imponga loro una sorta di piano regolatore della convivenza, Smith si appoggia alla comunicazione umana, senza la quale non c'è “sociabilità”: “Nessuno ha mai visto un animale, coi suoi gesti o le sue grida naturali, far capire a un altro animale: questo è mio, quello è tuo, io darei volentieri questo in cambio di quello”. L'uomo argomenta, persuade, e per questo scambia: l'economia non è una degenerazione dell'esperienza umana, ne è parte essenziale.
All’economia di mercato, che negli anni Vargas Llosa ha difeso con una coerenza rara fra gli intellettuali pubblici e con grande coraggio politico (la sua candidatura alla presidenza nacque da un articolo, di inaspettato successo, contro la nazionalizzazione delle assicurazioni), riconosce un merito che altri considerano un difetto. Il capitalismo “mina il nazionalismo, muovendosi al di sopra delle frontiere”.
Nazionalismo e socialismo sono l'uno e l'altro l'incarnazione moderna dello "spirito tribale" che periodicamente seduce i gruppi umani. Essi “negano l'individuo come essere sovrano e responsabile”, quest'ultimo finisce per esistere soltanto come "parte" di una collettività.
Il richiamo della tribù si legge, va da sé, come un romanzo e riannoda con passione i fili della biografia intellettuale e personale dei suoi magnifici sette. Persino l'austero Hayek diventa il personaggio di una storia: il coraggio intellettuale, in mani sapienti, può diventare protagonista di un'avventura. Non inganni il fatto che Vargas Llosa è uno dei grandi narratori del nostro tempo. In questo libro c'è precisione, studio e passione. Vale la pena leggerlo o rileggerlo in questa settimana che vede il suo autore riconosciuto come “immortale”. Come le sue parole.
Mario Vargas Llosa, Il richiamo della tribù (2018), Einaudi, Torino, 2019, pp. 256.