Questo libro ha un titolo meraviglioso, Liberalism’s Last Man. Non so se Friedrich von Hayek lo sia stato davvero, sicuramente avrebbe voluto l’esatto il contrario, contribuire cioè a rendere nuovamente viva e fertile la fragile piantina delle idee liberali. Ma se consideriamo la vastità dei suoi interessi, il suo mescolare una appassionata anglofilia a una conoscenza ricchissima della tradizione continentale, l’essere stato un grande economista e poi un grande teorico politico, mettiamoci pure i modi da gentiluomo austriaco così diversi dall’informalità programmatica degli americani, non è poi così difficile associare Hayek all’aggetto “ultimo”. Lo si vede forse più di tutto in uno degli aspetti meno indagati del suo pensiero, cioè gli accenni che vi si ritrovano rispetto a un’idea di ordine internazionale. La diffidenza verso lo Stato nazionale, in Hayek, traeva linfa dal ricordo della comunità politica in cui lui era nato, che era altra cosa rispetto agli Stati nazionali: l’Impero asburgico.
Il libro di Vikash Yadav non c’entra nulla col suo titolo ma è comunque uno studio originale e curioso, che merita di essere letto. L’autore è professore di relazioni internazionali e si occupa in particolare modo di Asia. E’ preoccupato dai successi di quello che, seguendo Branko Milanovic, chiama “capitalismo politico” per distinguerlo dal “capitalismo liberal-democratico meritocratico” occidentale. Esempi di “capitalismo politico” sono Cina, Vietnam e Singapore. Si tratta di Stati che hanno fatto passi avanti verso l’economia di mercato e nei quali una quota crescente di imprese e mezzi di produzione è in mano privata, ma a fronte di governi che continuano a godere di ampio potere discrezionale, che seguitano a influenzare l’allocazione dei fattori produttivi e che talora esibiscono tratti dispotici.
Yadav sostiene che, in questo contesto, "una strategia di contenimento ideologico e militare in stile Guerra Fredda per fermare la diffusione del capitalismo politico ha poco senso, data la diversità ideologica degli Stati che sembrano aderire al modello". Il “capitalismo” politico diventa attraente nella misura in cui offre crescita economica e il suo contraltare occidentale invece "viene associato all'incompetenza e all'instabilità politica, a risultati economici mediocri, alla proprietà altamente concentrata del capitale e alla mancanza di mobilità sociale intergenerazionale". Pertanto, il “capitalismo meritocratico liberal-democratico” deve rinnovarsi, se vuole tornare a essere un modello attraente per il mondo.
Come fare? L’idea di Yadav nella sua semplicità è brillante. Ha preso in mano un classico del pensiero liberale, La via della schiavitù di Hayek appunto, scritto nel 1944 quando l’autore temeva che la Germania avrebbe sì perso la guerra ma le idee fatte proprie dal regime hitleriano sarebbero riemerse carsicamente nel campo vincente, dal momento che rispetto al controllo della produzione, all’organizzazione dello Stato sociale, alla necessaria comprensione della libertà individuale a fronte dei disegni collettivi la classe dirigente britannica (quella che Hayek conosceva meglio) non la pensava poi tanto diversamente. E’ ben noto che, nella Prefazione all’edizione tedesca della sua Teoria generale, lo stesso Keynes (che pure sin da principio ebbe un assoluto disprezzo per il regime nazista) scrisse che vi erano elementi della sua teoria “molto più facilmente adattabili alle condizioni di uno stato totalitario”. Per inciso, Hayek, che era un gentiluomo, non menziona mai la cosa. E non era preoccupato per i seguaci tedeschi di Keynes, semmai per i nuovi accoliti che le idee “tedesche” si erano conquistati in Inghilterra.
Yadav non vuole usare La via della schiavitù come manualetto contro il “capitalismo politico”. Ma rilegge Hayek per capire quali sono i punti di forza del “capitalismo meritocratico liberal-democratico” e proporre alcuni spunti per la ristrutturazione di quest’ultimo. Il suo saggio ha uno sviluppo chiaro e didascalico. I capitoli seguono la progressione di quelli di Hayek e ciascuno parte con una analisi della citazione che Hayek aveva posto in esergo al capitolo corrispondente. L’effetto complessivo è quello di una “guida alla lettura” con l’ambizione di attualizzare il classico a cui s’accosta.
Si tratta di un ottimo libro, soprattutto per chi non abbia mai letto Hayek e voglia avvicinarsi a lui restando ancorato a una prospettiva contemporanea.
Due i punti deboli.
Il primo è che Yadav stesso sembra non interrogarsi eccessivamente sul perché del relativo successo dei Paesi del “capitalismo politico”. La versione presa per buona in Occidente è stata, negli ultimi anni, che Cina, Vietnam, eccetera fossero cresciuti in ragione di “politiche industriali” perseguite dai rispettivi governi. Yadav ammette che potrebbe essere vero il contrario: cioè che gli spazi aperti all’economia di mercato potrebbero aver creato sufficiente ricchezza da consentire poi gli altri impieghi che conosciamo. In un Paese delle dimensioni della Cina, smettere di criminalizzare l’attività imprenditoriale (che ha significato: smettere di mettere in galera chi prova a creare un’impresa, grande o piccola, per fare profitto) ha effetti dirompenti. Le riforme effettuate sembrano “modeste” se viste da chi gode di un grado superiore di libertà economica: ma l’esito è straordinario, proprio in ragione della condizione di partenza. La questione non è periferica: il “capitalismo politico” crea ricchezza perché capitalismo, o perché politico?
Il secondo è che è opportuno provare a ricordare al “capitalismo liberal-democratico meritocratico” le sue radici e le ragioni del suo successo storico. Ma non si può fingere di non vedere che negli ultimi anni ci siamo allontanati dai principi-cardine dell’economia di mercato, esattamente come Hayek temeva avremmo fatto nel dopoguerra. E come in effetti la sua amata Inghilterra fece. Non si riflette mai a sufficienza sul fatto che ciò che salvò l’economia di mercato, contribuendo a che essa tornasse a essere un modello al quale guardare, fu la performance economica della Germania sconfitta ma riscattata dal capitalismo liberale grazie soprattutto a Ludwig Erhard. Oggi noi siamo in una situazione non tanto diversa. Il modello del “capitalismo politico” (ricordate quando si parlava di “modello cinese”?) è diventato una giustificazione per gli Stati Uniti e l’Unione europea per decisioni discrezionali, una crescente centralizzazione e per rendere sempre più aleatori i diritti di proprietà privata. Dieci anni di politiche monetarie avventuristiche hanno riportato indirettamente il “pubblico” all’interno delle imprese capitalistiche in una misura che gli stessi Partiti comunisti occidentali avrebbero considerato eccessiva. La narrazione delle “transizioni” (digitale ed ecologica) conduce allo Stato che dice l’ultima parola sull’allocazione dei fattori produttivi. Durante la pandemia, i governi occidentali, sul modello di quello italiano, non sono stati meno interventisti di quelli del “capitalismo politico”.
Yadav insomma tende a presumere che, per quanto addormentato, sotto sotto l’ “Occidente” sia ancora quel che pensa di essere. Che non sia solo un’altra variante di “capitalismo politico”, sotto una vernice ideologica diversa. Questo nulla toglie al valore del suo lavoro ma lo rende una lettura più amara, a chi segua con un minimo di consapevolezza i bollettini di Washington e Bruxelles.
Vikash Yadav, Liberalism’s Last Man.Hayek in the Age of Political Capitalism, Chicago, University of Chicago Press, 2023, pp. 288.