Nelle scorse settimane una serie di proteste, con episodi violenti, hanno scosso l’Inghilterra: il Nord e non solo. A innescarle è stato l’assassinio di tre bambine che andavano a danza, per opera di un diciassettenne nato in Inghilterra ma di famiglia ruandese. Un crimine efferato che ha riacceso, ammesso che si fossero mai spente, le polemiche su immigrazione e “integrazione”. Purtroppo la discussione sul tema rischia di farsi sempre guidare dal singolo episodio e dalle emozioni che, giustamente, suscita. Per un punto di vista diverso, nazionalista ma argomentato, consiglio di leggere Matt Goodwin.
Di queste proteste, però, mi ha colpito un tratto veramente secondario: che, cioè, in nessuno dei resoconti mi è capitato di leggere l’espressione “barricate”. I manifestanti sono stati accusati della loro parte di devastazione degli spazi pubblici e di saccheggio. Ma sembra che a nessuno sia venuto in mente di ammonticchiare mattoni, sacchi, i cerchioni di un’automobile e quant’altro per farne uno sbarramento occasionale. Probabilmente, nessuno pensava di “fare le barricate”, nel senso di fare la rivoluzione.
Mi è tornato in mente questo libretto di Eric Hazan, figura mitica della sinistra francese, editore di mestiere e storico per passione. In poco più di 130 pagine, Hazan confeziona un ritratto della barricata a partire dalla sua storia, ma calcando quanto più possibile sulla sua dimensione simbolica. “Invenzione parigina, la barricata è il punto comune della maggioranza delle rivolte, insurrezioni e rivoluzioni che punteggiano la storia della città e del Paese - con la sola eccezione della Rivoluzione francese, nella quale il suo ruolo fu tardivo e minore”. Forse perché, sotto sotto, Hazan aderisce alla tesi che di una rivoluzione “borghese” si trattava… Nella sua prospettiva, la barricata è pietra angolare di qualsiasi autentica strategia rivoluzionaria, “non è un normale trinceramento”, essa tende a “proliferare e a formare una rete che incrocia lo spazio della città. Questa facilità di moltiplicazione la può rendere uno strumento offensivo: le barricate vittoriose sono quelle che bloccano le forze della repressione, ne paralizzano i movimenti e le riducono all’impotenza”. La tesi viene dimostrata attingendo, appunto, alla storia, non irrilevante, dei rivolgimenti parigini. Il lettore ha il conforto di utili mappe, da tener buone per una prossima gita alla Paris révolté.
La parola “fa la sua prima apparizione nei Commentaires di Blaise de Monluc, il signore della guerra che comandava le truppe del re contro gli Ugonotti nella Guienna negli anni Settanta del Cinquecento”. E tuttavia “la Guienna è un luogo remoto, e la guerra di Monluc contro Enrico di Navarra non è uno dei grandi capitoli della storia”. Quindi meglio fissarne il battesimo vent’anni dopo: “il 12 maggio 1588, le truppe regolari che Enrico III aveva portato a Parigi vennero circondate dalla fitta rete di barricate erette dalla popolazione, e per un pelo sfuggirono al massacro. Questa famosa Giornata delle Barricate segnò un punto di svolta nelle guerre di religione che avevano devastato la Francia per più di venticinque anni, e rappresentarono il primo uso efficace e su larga scala di questa tattica, fissando per molti anni a venire sia le modalità pratiche del suo uso sia il suo significato politico”.
Enrico III sembrava ammiccare ai protestanti e Parigi era un centro di forti simpatie cattoliche, per cui, facendovi ingresso, il sovrano si portò appresso 2000 soldati francesi e 4000 soldati svizzeri. Le rivolte del 12 maggio erano dunque promosse dalla nobiltà cattolica, ma soprattutto fecero perno sul senso di oltraggio della città, che non poteva sopportare una guarnigione straniera.
L’inventore della barricata fu il conte di Brissac, che diede istruzioni quella mattina per realizzarne attorno a Place Maubert. “Ciò che è sicuro è che la costruzione che fece la sua comparsa a Parigi quel giorno non aveva più nulla in comune con le catene che era stata prassi tirare fra le case per bloccare il passaggio”. Queste fortificazioni improvvisate erano fatte di
carri rovesciati, ciottoli, mobili e soprattutto barriques (botti), riempiti di terra per dare loro solidità. La rete di queste ultime era tanto fitta che i soldati venivano catturati come in una rete, sotto il fuoco delle barricate e delle case vicine. Un distaccamento che cercava di raggiungere place Maubert dall'Île de la Cité fu bloccato dalle barricate di rue Galande. Le guardie svizzere furono ostacolate nel passaggio e si fermarono. Seguendo l'esempio di questa barricata, ogni quartiere fece lo stesso per fermare altri soldati.
Lo stesso Brissac avrebbe poi, su richiesta del re, assicurato un passaggio sicuro alle guardie svizzere e riportato l’ordine in città. Nella visione romantico-barricadiera di Hazan, le barricate segnarono il punto più alto della parabola della Lega cattolica, il momento nel quale riuscì ad accattivarsi un vero supporto “popolare”. Appena tornò a cospirare nei palazzi, il suo declino divenne inevitabile.
La seconda Giornata delle Barricate si celebrò sessant’anni dopo, il 26 agosto 1648. Essa rappresentò “uno spettacolare episodio all’inizio della Fronda, che avrebbe continuato per quattro anni”. Le finanze pubbliche erano allo stremo per la guerra dei trent’anni e, a primavera, le necessità militari avevano riacceso la creatività fiscale della corte e propiziato la messa in vendita di ventiquattro nuove posizioni di maître des requêtes.
I tesorieri, funzionari regi incaricati di riscuotere le imposte dirette (compresa la taille feudale), vedendo il popolo così pressato che qualsiasi tassa rischiava di provocare un'esplosione, smisero di lavorare: oggi diremmo che scioperarono. Anche i settantamila maître des requêtes, pilastri dell'autorità reale in ambito giudiziario, decisero di smettere di trattare le cause, per protestare contro la creazione di nuove cariche che diluivano il valore di quelle che possedevano. Nel giro di poche settimane, il movimento si estese a tutto il personale legale, al Parlement di Parigi, al Grand Conseil o Gran Consiglio, alla Camera dei Conti (camera che supervisiona le entrate reali e le spese pubbliche) e alla Cour des Aides (tribunale fiscale). Questo movimento era illegale, ma i parlamentari parigini avevano davanti a loro l'esempio del Parlamento inglese, che aveva appena vinto la guerra civile contro Carlo I.
Anche i successi della Fronda furono precari, ma ciò che interessa a Hazan è riscontrare tutto ciò che consente di immaginare una storia unitaria della barricata. Quelle del 1648 “sono fatte con gli stessi elementi” di quelle del 1588 ma ancor più di queste ultime si moltiplicano a gran velocità poiché “l’intera popolazione prese parte nella loro costruzione, incluse donne e bambine”. Se nel 1588 era stato Brissac (o chi per lui, comunque un militare) a spiegare ai parigini come erigere queste fortificazioni di fortuna, “ciò che colpisce delle barricate della Fronda è il loro carattere spontaneo. La cosa avvenne senza leader: né Broussel, né i parlamentari, né Retz, checché sostenesse egli stesso, erano all’origine delle barricate del 1648. Essi non le anticiparono né le diressero, e a dire il vero neppure le sfruttarono appieno. Le barricate erano il risultato di un movimento di indignazione generale della popolazione di Parigi innanzi agli arresti ingiustificati, alla luce dell’odio contro lo straniero, il Cardinal Mazzarino, che voleva perpetuare il potere arbitrario di Richelieu”.
Durante la Rivoluzione francese, “le battaglie che condussero alla presa della Bastiglia nel luglio 1789 e alla caduta della monarchia dell’agosto 1792 non erano scontri di strada, ovvero confronti propizi alla barricata”. Che fa solo una fugace comparsa nel mese di pratile (20 maggio-18 giugno) del 1793, come protesta di strada contro il Direttorio e in particolare contro l’abolizione dei calmieri.
Le barricate invece, secondo Hazan, incorniciano la monarchia di luglio. Si comincia nel 1827. Ad aprile Carlo X passa in rassegna gli uomini della Guardia Nazionale parigina, un lascito della Rivoluzione. Chateubriand gli aveva suggerito di far “mettere ai piedi di Sua Maestà” le dimissioni dei ministri, resisi impopolari con una legge contro la liberà di stampa il dicembre dell’anno prima. “Vostra Maestà si mostrerà alla rivista: vi sarà accolta come si deve ma forse sentirà, tra le grida di Viva il re!, altre grida che le faranno conoscere l’opinione pubblica sui suoi ministri”, scrive al re l’autore delle Memorie d’oltretomba. Prova a spiegargli che mentre gli assembramenti popolari sono “pericolosi sotto le monarchie assolute, poiché hanno a che fare con il sovrano in persona”, i sovrani costituzionali possono frapporre i governi fra loro e il popolo. Non fu il primo dei suoi consigli a finire inascoltato.
Il re fu bene accolto nell’insieme, ma un paio di compagnie della VI legione gridarono: Abbasso i ministri! Abbasso i gesuiti! Carlo X, offeso, replicò: «Sono venuto qui per ricevere omaggio, non lezioni». Aveva spesso in bocca nobili parole non sempre sorrette dal vigore dell’azione: la sua mente era ardita, il suo caratter timoroso. Tornando al castello, Carlo X disse al maresciallo Oudinot: «Il risultato complessivo è stato soddisfacente. A parte qualche facinoroso, la maggioranza della guardia nazionale è buona: esprimetele la mia soddisfazione».
E’ invece il primo ministro Villèle che, messo in un angolo, decide di sciogliere la guardia nazionale. Pochi mesi dopo, cercando una via d’uscita dal vicolo cieco in cui si è cacciato, indice le elezioni. Che perde miseramente. La città celebra la vittoria delle opposizioni, improvvisando barricate che le forze dell’ordine disfano appena possibile ma il giorno dopo si formano di nuovo. “Il vocabolario dei funzionari e della polizia varia nel tempo: anzitutto menzionano degli adolescenti, quasi bambini, poi dei vagabondi, e infine dei lavoratori [qualche anno dopo, arriveranno anche i preti con la chitarra…]. Quel che appare chiaro è tuttavia il carattere spontaneo dell’innalzare barricate senza capi o obiettivi: una manifestazione di gioia che è poi degenerata, si direbbe oggi”. De gustibus.
Le barricate del 1827 non sono che il preludio a quelle del luglio 1830. Non è un caso, nota Hazan, che “il più famoso dipinto di un episodio nella storia della Francia - La libertà che guida il popolo - fu fatto da Deloacroix” dopo le Trois Glorieus. Se Jacob Burckhardt riteneva che gli anni della monarchia di luglio furono i più felici nei quali a un essere umano potesse essere dato di vivere (un po’ come per Gibbon la Roma degli Antonini, con la non trascurabile differenza che Burckhardt era un contemporaneo), Eric Hazan non la pensa proprio così. E la monarchia orleanista nella sua narrazione è un furto della borghesia liberale ai danni del popolo, che aveva ben altri piani per la testa quando accompagnò l’ultimo dei Borboni alla porta. Con un pizzico di sadismo, racconta che nel 1848 Luigi Filippo non poteva che ripetersi “Come Carlo X! Come Carlo X”. Annotò Tocqueville:
Mi sono domandato qualche volta che cosa avesse potuto provocare nell’animo del re quell’improvviso, inaudito abbattimento. Luigi Filippo aveva passato la sua vita in mezzo alle rivoluzioni e certo non erano l’esperienza, il coraggio, la forza d’animo che gli facevano difetto, sebbene gli siano venuti meno completamente in quel giorno. Credo la sua debolezza sia stata causata dall’eccesso della sua sorpresa: fu gettato a terra prima di aver capito. La rivoluzione di Febbraio fu per tutti impreveduta, ma per lui più che per ogni altro (…) da parecchi anni il suo animo si era ritirato in quella specie di orgogliosa solitudine in cui finisce quasi sempre col vivere l’intelligenza dei principi vissuti a lungo felici: scambiando la fortuna per genio, essi non vogliono più ascoltare nulla, convinti di non aver più nulla da apprndere da nessuno. (…) Luigi Filippo era stato indotto in errore - come furono i suoi ministri - da quella luce ingannevole che la storia dei fatti precedenti getta sul tempo presente.
Dalla sua comoda tribuna rivoluzionaria, Hazan aveva forse il problema opposto: era abbagliato dalla luce ingannevole che il futuro può proiettare sul passato. Così, la sua storia delle barricate prosegue con la celebrazione del ‘48, il compiersi della rivoluzione socialista che il popolo già, suggerisce, sognava nel 1830 e perché non anche nel 1588, e poi della Comune di Parigi ovviamente. Che alle barricate del 1848 segua il Secondo Impero e a quelle del 1871 la Terza Repubblica è un dettaglio trascurabile. All’editore rivoluzionario interessa celebrare la barricata “come forma simbolica [?] di insurrezione: disfare la pavimentazione di una strada, rovesciare un carro, ammassare mobili, è dare un segnale, mostrare la determinazione alla lotta, al lottare assieme. Le barricate formano una rete che unisce i combattenti assieme e conferisce unità alla lotta, anche se manca un capo o un piano complessivo”.
Vive la révolution! E vive le barrique! Potremmo dire che le botti in Francia fanno le rivoluzioni, in Italia le prevengono dal momento che, come deve aver detto Leo Longanesi, tutte le rivoluzioni cominciano in piazza ma finiscono a tavola. Se cercate “barricata” su Google, fra i primi risultati esce immancabilmente qualche grappa. La barricata migliore, direi.
Eric Hazan, A History of the Barricade (2013), New York, Verso, 2015, pp. 132.
Bellissimo, ma omette la conclusione della storia, che produce la più bella città (moderna) del mondo.
Il barone Georges Eugène Haussmann demolisce la vecchia città di impianto medievale che per secoli aveva prodotto rivolte e barricate, e la ricostruisce con gli ampi e luminosi boulevards che, oltre ad essere consoni ad una moderna viabilità, consentono di sparare con i cannoni caricati a mitraglia, rendendo così il riparo offerto dalle barricate del tutto insufficiente.
Però fu a Milano che il generale sabaudo Bava Beccaris sperimentò sulla folla inerme tale tecnica, provandone l'effetto micidiale con oltre 500 morti.