Già nel 2016, i commentatori spiegavano la vittoria elettorale di Donald Trump sulla base di uno schema tutto sommato semplice: la globalizzazione ha influito negativamente su alcune fasce di lavoratori, danneggiati dalla migrazione di imprese e stabilimenti all’estero. Costoro, vittime di un “eccesso” di apertura allo scambio internazionale, costituiscono un promettente giacimento elettorale che a un bel momento un politico spregiudicato (Trump negli Stati Uniti, ma lo stesso racconto è stato riproposto più o meno per ogni altro “populista” nel mondo occidentale) decide di trivellare per conquistare il potere.
Il trumpismo in particolare, il populismo in generale, sono stati interpretati come la reazione al “neoliberismo”, la vendetta della politica messa in ombra dalle ragioni dell’economia. Questa lettura è stata proposta soprattutto da autori, semplificando, “di sinistra” che ritenevano e ritengono che la loro parte politica abbia tradito se stessa, compromettendosi negli anni Novanta con l’apertura dei commerci, la liberalizzazione finanziaria, la riforma del welfare, eccetera, ovvero un mix di politiche “di destra”. Del resto, chi si azzarderebbe a dubitare che negli ultimi anni il ceto medio si sia drammaticamente impoverito? E’ lì, non c’è dubbio, che si annidano i trumpiani più o meno consapevoli, pronti a barattare il sostegno a politici con inclinazioni autoritarie con il miraggio di riagguantare la prosperità perduta.
Buona parte delle politiche messe in atto dagli establishment occidentali, negli ultimi dieci anni, si fonda su questa analisi. L’amministrazione Biden, per esempio, ha mantenuto se non accentuato il protezionismo trumpiano, cui ha aggiunto notevoli spese per la politica industriale e in genere politiche redistributive che avrebbero dovuto, questo era il piano, sanare le ferite della globalizzazione. Qualcosa di simile, con tutte le differenze del caso fra un Paese e l’altro, è avvenuto in Europa. L’Unione europea ha fatto di tutto per abbandonare il suo ruolo tradizionale di guardiano dei conti pubblici e ha inaugurato una serie di programmi che dovevano oliare le ruote dell’economia, riorientare lo sviluppo in una direzione green e contribuire a livellare diseguaglianze pure assai diverse da quelle che si presentano nel contesto americano. Oggi, l’aumento della spesa militare serve come pretesto per il medesimo fine: più spesa, più debito. I più onesti fra i sostenitori di queste politiche le hanno presentate apertis verbis come un ritorno all’epoca d’oro keynesiana, prima che l’inflazione, Paul Volcker e Margaret Thatcher si mettessero di mezzo.
Ci sono solo due problemi. Il primo è che non è così chiaro che la classe media (in Europa e negli Stati Uniti in generale: lasciamo perdere l’Italia, che fa storia a sé) si sia impoverita, e nemmeno che il suo reddito disponibile sia rimasto “stagnante”. Ci sono, in quelle analisi, molti problemi, che hanno a che fare con il ruolo del fisco e anche con quello dell’innovazione tecnologica (il reddito, è solo un’altra delle cose che avremmo dovuto imparare da Adam Smith, conta per i consumi che ci consente di sostenere). Il secondo è che, pur ammettendo che la globalizzazione (come qualsiasi altro fenomeno sociale) abbia beneficiato alcuni e danneggiato altri, bisogna dimostrare che siano questi ultimi ad avere alimentato il trumpismo.
Il comportamento elettorale è sempre misterioso. Noi sappiamo che milioni di persone hanno votato per Trump (o Giorgia Meloni, o Emmanuel Macron), ma non necessariamente perché. Ogni candidato rappresenta un impasto di valori, retorica, idee e il fatto che sostenga una certa tesi non basta a significare che gli elettori lo abbiano scelto per quella.
Questo libro di Diana Mutz, importante studiosa delle dinamiche dell’opinione pubblica, si spinge oltre i ragionamenti convenzionali e si chiede se Trump (nel 2016) sia stato votato da persone che avevano visto peggiorare la propria condizione economica a causa della globalizzazione. Si domanda inoltre cosa pensano gli americani dello scambio internazionale e della globalizzazione: quali sono gli argomenti che fanno sì che parte degli elettori li apprezzino, e altri invece no. L’autrice non è un’economista ma conosce gli argomenti degli economisti. Spiega bene perché questi ultimi siano inadeguati a convincere gli elettori della bontà del libero scambio. Il titolo del saggio è azzeccatissimo: attingendo a un vasto campionario di studi empirici, Mutz esplora la psicologia del protezionismo e come funzioni l’incastro fra convinzioni e scelte politiche.
Cominciamo dal primo punto. Nel 2016, durante le primarie, il sondaggista Nate Silver sottolineava come “in tutti i 23 stati [in cui Trump ha vinto] il reddito mediano dei suoi elettori era superiore al reddito mediano dei rispettivi stati”, e non si distaccasse molto dal valore medio per gli elettori di Cruz. Dopo le elezioni, Eric Sassoon sul New Republic esaminando gli exit polls concludeva che “gli elettori bianchi laureati di entrambi i sessi hanno votato a favore di Trump con margini molto più elevati di quanto non ci si aspettasse”. Se è vero che “molti elettori in zone rurali che avevano sostenuto Obama nel 2008 e nel 20122 nel 2016 votavano per Trump, “essi non rappresentano certo la maggioranza dei 60 milioni di voti a favore di Trump, giacché questa classe di elettori rappresenta appena il 17 per cento dell’elettorato di quest’anno. La gran parte degli elettori in zone rurali, in ogni caso, generalmente vota per candidati repubblicani”. Invece “tra i bianchi laureati, solo il 39 per cento degli uomini e il 51 per cento delle donne” aveva votato per la Clinton.
La maggioranza dei commentatori vedeva il sostegno a Trump nelle aree del declino industriale e ne deduceva che fosse il prodotto dell’irritazione per gli esiti della globalizzazione. Tuttavia, spiega Mutz,
la maggior parte di quei lavoratori rispondeva di stare meglio nel 2016 di quanto stesse nel 2012, pertanto rendendo difficile sostenere che stesse reagendo agli effetti negativi della globalizzazione. Per quanto Trump abbia sicuramente rappresentato meglio coloro che si opponevano allo scambio internazionale, non ho trovato prove del fatto che le persone abbiano preso a opporsi al commercio internazionale a causa delle difficoltà economiche.
La questione rilevante era invece la percezione dello status degli Stati Uniti all’estero. I maschi bianchi con un basso livello di educazione che avevano sostenuto Trump (ma, come abbiamo appena ricordato, non solo loro) “vedevano il commercio internazionale come una competizione che il loro Paese non stava ‘vincendo’ quando invece essi pensavano avrebbe dovuto farlo”. Tant’è che, riporta Mutz, la percezione della globalizzazione migliora durante il mandato di Trump, perché quegli elettori si convincono di avere un gran “deal maker” alla Casa Bianca e dunque non hanno obiezioni a commerciare di più con il resto del mondo. Ecco perché, durante la prima amministrazione Trump, non sono impensieriti né poco né punto dal peggioramento della bilancia commerciale e non ne fanno una colpa al proprio beniamino.
Nel 2020, i repubblicani sono i più entusiasti sostenitori dello scambio internazionale, a dispetto del fatto che la bilancia commerciale - che dovrebbe essere il centro delle loro preoccupazioni - è abbondantemente peggiorata (…) se uno crede che i deficit commerciali siano un problema, non dovrebbe essere felice con l’attuale stato delle cose [il libro è del 2021]. E tuttavia il sostegno per lo scambio internazionale dei repubblicani si è alzato. Chiaramente le persone non hanno cambiato le loro idee in ragione di un miglioramento della bilancia commerciale. E che dire dei lavoratori delle industrie manifatturiere? La grossa perdita di lavori manifatturieri accaduta a partire dalla seconda parte degli anni Novanta fino al 2010 e che poi si è ridotta di intensità doveva essere la causa della rivolta contro la globalizzazione nel 2016. Ma non c’è stata alcuna rifioritura della manifattura e il numero dei lavori in quei settori non è rimbalzato. Nondimeno, il sostegno dei repubblicani alla globalizzazione si è più che ripreso.
Che cosa possiamo dedurne?
Con tutta probabilità queste non erano le cause reali dell’opposizione allo scambio internazionale neanche da principio. Gli elettori bianchi nel 2016 non stavano esprimendo un rifiuto radicale della globalizzazione, ma la paura che il loro status nel mondo, e anche la loro posizione relativa all’interno degli Stati Uniti, stesse peggiorando.
Pertanto, “l’elezione di Trump non rappresentava un cambiamento di fondo delle attitudini americane verso lo scambio e la globalizzazione”. Su che cosa si fondano, queste ultime? Il messaggio cruciale del lavoro di Mutz è che raramente le persone basano le proprie posizioni politiche sulla propria condizione economica e sulla propria esperienza diretta. E’ un errore pensare che gli elettori votino col portafoglio, come si diceva una volta.
Invece, le persone sostengono o si oppongono al commercio internazionale per ragioni che hanno poco a che fare con le loro finanze. Faticano a comprendere che si tratti di un gioco a somma positiva. Per molti di loro i commerci a lunga distanza sono una proiezione di quelli che avvengono nella loro cerchia ristretta. Diventiamo amici dei ristoratori e ci mettiamo in affari coi nostri amici. Cerchiamo di avere relazioni con persone che ci assomigliano o cui vorremmo assomigliare. Gli individui tendono a guardare con maggior favore al commercio con Paesi che ritengono affini e a essere ostili agli scambi con Paesi che considerano più dissimili (nel caso statunitense, gli scambi col Canada hanno migliore stampa di quelli col Messico). Non accettano dunque il concetto apparentemente semplice che si scambia fra diversi.
C’è un problema di vocabolario. Il commercio internazionale viene raccontato come una forma di competizione e raramente se ne sottolineano gli aspetti cooperativi. Gli stessi economisti parlano di “vincitori” e “perdenti” e quando lo fanno
si stanno riferendo alle conseguenze distributive dello scambio, ovvero a vincitori e perdenti in diverse linee di lavoro all’interno dello stesso Paese. Per esempio, negli Stati Uniti, le imprese esportatrici traggono vantaggio dal commercio, come i loro impiegati, mentre quelle che non riescono più a competere nel mercato globale falliscono, creando pertanto “perdenti” e disoccupazione in quei settori. Invece, quando il pubblico in generale pensa a vincitori e sconfitti del commercio, essi tendono a pensare più a una competizione che coinvolga gli Stati Uniti e uno specifico partner commerciale, dalla quale Paesi vincitori e Paesi sconfitti debbono a un certo punto emergere.
Paradossalmente, il fatto che gli americani siano la popolazione al mondo che più crede nei valori della concorrenza vizia la loro percezione della globalizzazione.
Gli americani amano la competizione, specialmente quando vincono. Studi a livello nazionale dimostrano che gli americani credono nei meriti della concorrenza più della popolazione di qualsiasi altro Paese industrializzato al mondo. Il problema posto dall’ascesa della globalizzazione è che gli americani non si vedono più come i vincitori sicuri di questa competizione. Invece, essi cominciano a temere di essere i potenziali perdenti di una competizione fra Paesi (…) Per la maggior parte del pubblico di massa, il desiderio di ‘fair trade’ non ha nulla a che fare con la preoccupazione per il modo in cui sono trattati i lavoratori di altri Paesi o l’ambiente; invece, significa che essi credono che la partita sia truccata.
Nell’analisi di Mutz, il modo in cui gli americani si rapportano allo scambio internazionale è fortemente correlato alla loro attitudine rispetto agli investimenti diretti esteri: il fatto che il primo possa “esportare” posti di lavoro mentre i secondi li “importino” non cambia nulla. La questione fondamentale è l’atteggiamento verso gli stranieri.
Gli argomenti tipici a favore della globalizzazione avanzati da parte degli economisti hanno poca presa, anche su quei settori dell’elettorato che sono più favorevoli allo scambio internazionale. Questi lo sono per una ragione economica: la maggiore disponibilità di beni che deriva dal commercio con più Paesi. Ma lo sono soprattutto per ragioni extra-economiche: sono sensibili al fatto che commerciare con altri equivalga a riconoscere dignità e rispetto alle persone di altri Paesi e al fatto che il commercio segnali buone relazioni politiche. La vecchia idea liberale che il commercio aiuti a far la pace è paradossalmente più popolare, almeno negli Stati Uniti, di quanto appaia.
A remare nella direzione opposta sono i politici. Prima di Trump sia Obama che Romney avevano commissionato spot anti-cinesi, gareggiando per chi si dimostrava più duro contro il Dragone. Dopo Trump, possiamo aggiungere, il sentimento anti-cinese è stato ulteriormente alimentato dalla classe politica americana.
C’è una circolarità nel modo in cui i candidati interagiscono col commercio come problema. Essi sono convinti che i loro sostenitori siano ostili al commercio, pertanto investono in pubblicità anti-globalizzazione durante la campagna elettorale per rassicurare il pubblico che sono dalla stessa parte. Questa pubblicità, a sua volta, contribuisce ad accrescere l’ostilità di tali gruppi. Quindi non è affatto una sorpresa che poi gli stessi politici incontrino resistenza quando propongono accordi commerciali come fece Obama con la Trans-Pacific Partnership (TTP).
Che la globalizzazione sia meno impopolare fra le persone più istruite non suggerisce che queste ultime siano meno inclini a ricascare nelle solite fallacie economiche, ma ha a che fare col fatto che presso di loro il nazionalismo ha meno presa. Nello stesso tempo, Mutz sostiene (parliamo sempre del 2016-2020) che la percezione dell’immigrazione non sia peggiorata negli Stati Uniti: “è un errore pensare che, siccome Trump ha vinto le elezioni, tutte le sue posizioni trovino eco nell’opinione pubblica”.
Forse chi ha a cuore la globalizzazione dovrebbe cambiare strategia e, in Europa perlomeno, ripensare in modo critico a molte delle posizioni che ha sposato in questi ultimi anni. L’aver taciuto, o peggio consentito, innanzi a chi ha trasformato lo scambio internazionale in un rubinetto che si apre o si chiude a seconda dello status di amico o nemico del Paese partner conferma un pregiudizio diffuso e rende ancora più precario il consenso per accordi multilaterali. Il ricorso a una retorica che considera intere popolazioni e Paesi “pericolosi” indebolisce la fiducia nei mercati. “Il sostegno per il libero commercio è più strettamente legato al fatto che le persone percepiscano che lo scambio migliora le relazioni internazionali che al fatto che credano che faccia aumentare o riduca l’occupazione nel loro Paese”.
Diana C. Mutz, Winners and Losers: The Psychology of Foreign Trade, Princeton, Princeton University Press, 2021, pp. 352.