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Diseguaglianze e fisco, una prospettiva diversa

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Diseguaglianze e fisco, una prospettiva diversa

Un sabato, un libero

Alberto Mingardi
Mar 11, 2023
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Diseguaglianze e fisco, una prospettiva diversa

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La discussione sulle diseguaglianze è ubiqua. Sono molte le preoccupazioni legittime e comprensibili (la discrasia fra competenze formate dalla scuola e mondo del lavoro, gli effetti del Covid-19 sui tassi di apprendimento, gli effetti distributivi di politiche monetarie che hanno fatto lievitare i valori degli asset) e altrettanti i luoghi comuni.

Questo libro prova a mettere in crisi l’approccio dominante: quello per cui il mondo, e i Paesi occidentali in particolare, sarebbero sempre più divaricati e gli Stati Uniti più di tutti. Gli autori sono l’ex senatore del Texas Phil Gramm (economista di formazione), l'economista Bob Ekelund e lo statistico John Early.


The Myth of American Inequality (Rowman and Littlefield, 2020) sostiene che la discussione prevalente sia inficiata da una percezione falsata: le statistiche ufficiali del Census Bureau statunitense, quelle che suffragano l’idea di una crescente polarizzazione sociale, non considerano l’effetto di tasse e trasferimenti. Le tasse, ovviamente, riducono il reddito dei ricchi e i trasferimenti, altrettanto ovviamente, dovrebbero aumentare quello dei poveri.

Le une e gli altri sono di una certa importanza, per stabilire quanti americani rientrano nella definizione di povertà del Census Bureau stesso. Secondo i numeri forniti dal Bureau, il quintile inferiore della popolazione consuma più del doppio del reddito che le medesime statistiche gli riconoscono: 26 mila dollari contro 13.258.

Gramm, Ekelund e Early si sono accorti che qualcosa non tornava nel 2020, quando il rapporto annuale del Census Bureau sosteneva che il reddito mediano delle famiglie fosse sceso del 2,9% e 3,3 milioni di americani in più fossero caduti in povertà. Ma perbacco: proprio nel 2020, per contrastare gli effetti della pandemia, la spesa pubblica è cresciuta del 50% e il governo federale ha distribuito sussidi a pioggia. Possibile che non siano serviti proprio a niente?

È così che Gramm, Ekelund ed Early scoprono che il grosso dei “ristori” (usiamo la dizione più amata in Italia) non viene considerata nelle statistiche ufficiali: “le statistiche da cui dipendono i tassi ufficiali di povertà non contano i crediti d'imposta rimborsabili come reddito per i beneficiari”. Similmente, il Census Bureau non conteggia “i food stamp, Medicaid, il Programma di assicurazione sanitaria per i figli a carico, i sussidi per l'affitto, i sussidi per l'energia e i sussidi per l'assicurazione sanitaria previsti dall'Affordable Care Act”. In totale, sono un centinaio i trasferimenti di vario tipo che scompaiono dai rapporti del Census Bureau.

Gli americani pagano circa 4,4 mila miliardi in imposte tutti gli anni, l’82% delle quali sono pagate dal 40% di contribuenti nelle fasce di reddito più alte. Non solo il Census Bureau non considera i trasferimenti per i più poveri, ma non considera nemmeno la riduzione di reddito che è l’inevitabile esito delle tasse pagate. La conseguenza è la visione della società americana che tutti conosciamo: i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri.

E' probabilmente un’immagine falsata, anche al netto delle imposte: Gramm, Ekelund ed Early offrono un esempio illuminante. Il telefono cellulare entra nel Consumer Price Index soltanto nel 1998. Da allora a oggi i telefonini hanno visto un impressionante miglioramento tecnologico, le possibilità che offre un apparecchio contemporaneo non sono neppure vagamente paragonabili a quelle di allora: ma tutto questo nelle statistiche non entra. Non entra neppure la riduzione del 75% circa del prezzo di un cellulare che si osserva dall’entrata in commercio, all’inizio degli anni Ottanta, appunto al 1998. I progressi tecnologici hanno fatto sì che le automobili più economiche offrano sicurezza e comfort inimmaginabili quarant’anni fa anche nelle vetture di lusso, e che dire di televisori e computer? Tutto ciò, nelle statistiche nazionali, non entra.

Almeno però dovrebbero entrarci tasse e trasferimenti: le prime riducono il reddito di alcuni, i secondi aumentano il reddito di altri. Se si correggono includendovi tutte le imposte e i trasferimenti, il rapporto tra il reddito effettivamente a disposizione del primo 20% dei contribuenti rispetto all’ultimo 20% passa da un 16,7 a 1 (quello del Census Bureau) a un più modesto 4 a 1. Cioè il reddito effettivamente a disposizione dei contribuenti più ricchi è quattro volte, non diciassette, quello dei contribuenti più poveri.

Il libro ha acceso vivaci discussioni Oltreoceano ed è stato stroncato dagli opinionisti di sinistra. Costoro dovrebbero invece essere contenti. Se a fronte di ingenti trasferimenti, quali quelli che in tutti i Paesi occidentali hanno segnato la storia dell’ultimo mezzo secolo, non vi fossero effetti sulla distribuzione dei redditi, le nostre opinioni pubbliche dovrebbero chiedersi a che servono. Dovrebbero. Il paradosso dei nostri anni è che ci siamo tutti abituati a una spesa pubblica che si avvicina a metà del PIL (un po’ meno negli Stati Uniti), a fronte di una vivacissima discussione pubblica nella quale si ragiona come se quella spesa fosse ancora il 10% del PIL. 

Phil Gramm, Robert Ekelund & John Early, The Myth of American Inequality: How Government Biases Policy Debate, Lanham, Rd, Rowman & Littlefield, 2022, pp. 255

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