Tutti noi che ci occupiamo di idee politiche siamo convinti che esista una cinghia di trasmissione, per l’appunto, fra le idee e la politica. Che davvero “le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga”. Ma come funzioni di preciso quella cinghia di trasmissione non lo sappiamo. John Stuart Mill era convinto che l’insieme delle nostre convinzioni fornisse la mappa generale, per così dire, con la quale anche il nostro autointeresse riesce a orientarsi. Le idee però non galleggiano nel vuoto e “a meno che le circostanze esterne non cospirino con loro, esse in generale non hanno grande efficacia nelle vicende umane nell’immediato (…) quando le circostanze giuste e le idee giuste si incontrano, l'effetto raramente tarda a manifestarsi”. Qualche anno fa andava di moda sostenere che gli economisti liberali fossero degli avvoltoi, pronti a entrare in gioco non appena le cose si volgevano al peggio con ricette salvifiche di liberalizzazione e austerità. Naomi Klein stigmatizzava questa tendenza, da lei ricondotta a Milton Friedman e ai suoi discepoli, di approfittare dei disastri per vendere ai cittadini delle “terapie shock” che altrimenti nessuno avrebbe sfilato dagli scaffali. L’esempio più ricorrente è quello del Cile di Pinochet.
In realtà, non è una cattiva generalizzazione sostenere che le idee, “così quelle giuste come quelle sbagliate”, diventano interessanti per i politici essenzialmente nei momenti di crisi. Nelle situazioni a vario titolo identificabili con una qualche “normalità”, si galleggia, si affrontano i problemi “pragmaticamente”, che significa dare un colpo al cerchio e uno alla botte contemperando i diversi interessi in gioco. Quando le cose vanno male, il politico ha bisogno di un coniglio nel cilindro. Potremmo dire che ogni idea politica è alla ricerca della sua crisi.
In questo libro, che si legge tutto d’un fiato e che rappresenterà un documento prezioso per chi verrà dopo di noi, Luciano Capone e Carlo Stagnaro raccontano l’ormai famigerato Superbonus precisamente in questi termini. La crisi propizia è stata, com’è noto, quella del Covid-19. Se i bailout del 2007-2008 hanno segnato il picco negativo della fiducia nelle capacità di autoregolazione del mercato, il Covid è stato il picco negativo della fiducia delle classi dirigenti nelle persone (le quali, comprensibilmente, ora ricambiano il sentimento). Da una parte, le élite hanno ritenuto di introdurre limitazioni alle libertà personali senza precedenti, forse non solo in tempo di pace: nella convinzione, nemmeno celata, che gli individui non potessero adattarsi a norme igieniche più stringenti (canta “tanti auguri a te” mentre ti lavi le mani) e men che meno valutare personalmente il grado di rischio al quale esporsi. Dall’altra, messe in atto “restrizioni prima inimmaginabili agli spostamenti, ai contatti fisici e, di conseguenza, alle attività economiche”, i governi hanno non solo compensato, come farebbe un’assicurazione, chi non poteva lavorare perché gli era stato proibito, ma hanno pensato che “nulla sarebbe stato più come prima”, che dovevano inventarsi qualcosa per tenere a galla l’economia in un mondo in qualche modo destinato a essere diverso. La cosa che poi è avvenuta in qualche modo “spontaneamente”, cioè il rimbalzo dell’economia (chi non aveva potuto fare le vacanze ha deciso di farle, chi aveva posticipato l’acquisto della macchina nuova poi l’ha cambiata, dopo mesi in cui non potevano andare al ristorante le persone ci sono andate in massa, eccetera), appariva loro inimmaginabile.
“Di fronte a uno shock del genere, che travolge le libertà di movimento più essenziali prima che l’economia, giustamente l’attenzione è rivolta più alle misure che favoriscono un graduale ritorno alla vita quotidiana com’era prima della pandemia”, scrivono Capone e Stagnaro. L’allora ministro Speranza, nel suo libro presto divenuto introvabile Perché guariremo. Dai giorni più duri a una nuova idea di salute, vedeva nella pandemia una “possibilità di ricostruire un’egemonia culturale su basi nuove”. Non ci si è posti, semplicemente, il problema di come ripristinare la fiducia perduta. Qualcuno ha creduto che fosse il momento giusto, finalmente, per costruire un mondo nuovo.
Come? Aprendo i cassetti delle idee non realizzate ieri, immaginando che a fermarle fossero stati solo il destino cinico e baro o il neoliberismo, che poi è lo stesso. Questo è quello che è avvenuto col PNRR, quando i cassetti in questione erano quelli dei ministeri. Ma anche, e ciò è meno evidente o perlomeno non lo era a me prima di leggere Capone e Stagnaro, il caso del Superbonus. Il Superbonus esce dal cassetto di Riccardo Fraccaro, ministro dei rapporti con il Parlamento nel primo governo Conte e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel secondo governo Conte, “con delega all’aerospazio e al CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica)” per volere di Luigi Di Maio, allora capo politico del movimento. E’ lui l’architetto di quella che, insistono Capone e Stagnaro, è “la più grande politica industriale, nonché la più grande espansione fiscale degli ultimi decenni” se non di sempre: nell’appendice al libro, intitolata “Quanto è grande il Superbonus?”, ricordano che quest’ultimo ha avuto “un’incidenza sul pil di circa l’8% mentre, considerando l'insieme dei bonus edilizi, l’asticella sale all’11%”. Più o meno come il Piano Marshall, il doppio del recente Inflation Reduction Act americano, e, per entrare nel dibattito più attuale, “il Superbonus ha assorbito una quantità di risorse pari a quelle richieste dal Piano Draghi”.
Se l’influenza di un politico si misura su quanto spende (cosa su cui in Italia ci sono pochi dubbi), Fraccaro può legittimamente paragonarsi al generale Marshall e un bel giorno, se i leader europei gli daranno retta, Mario Draghi potrà paragonarsi a Fraccaro.
La paternità del Superbonus viene riconosciuta a Fraccaro dall’allora ministro dell’industria, pure lui grillino, Stefano Patuanelli. E’ Fraccaro “una settimana prima del Consiglio dei Ministri che avrebbe poi approvato il decreto, ad annunciare la nuova misura: «Ho lavorato a un Superbonus che mettesse insieme due strumenti già funzionanti, Ecobonus e Sismabonus, e li portasse all’estremo con uno sconto del 110%»”.
Il Superbonus è l’ultimo prodotto di una lunga sfilza di “bonus”, il più simile era il franceschiniano bonus facciate, abbracciato dall’allora ministro della cultura un po’ per ragioni estetiche e un po’ perché gli consentiva di paragonarsi a Malraux, fautore di una misura simile (ma assai più parca) ai tempi di De Gaulle. Alla tutela dell’estetica urbana si somma l’ecologia: “responsabilità verso le generazioni future” non è evitare di indebitarsi troppo, ma combattere il riscaldamento globale mettendo un bel cappottino termico a tutti gli immobili. Bell’idea, per carità, ma s'el custa, a che prezzo? Col Superbonus non se lo chiede nessuno, anzi porre limiti alla più grande espansione fiscale di sempre diventa come mettere i gomiti sul tavolo o ravanare col mignolo nel naso, una roba che non si fa e basta.
Spiegava Fraccaro:
In prima battuta, le famiglie avranno la possibilità di detrarre dalle tasse negli anni successivi all’investimento un ammontare superiore alla spesa sostenuta. Ma noi abbiamo anche introdotto la cedibilità senza limiti di questo credito di imposta e anche la bancabilità, cioè la possibilità di cederlo alle banche. Quindi una famiglia può decidere di detrarre negli anni successivi un importo superiore alla spesa oppure cederlo all’impresa che fa i lavori tramite uno sconto in fattura che ti consente di fare i lavori senza pagare nulla. Poi sarà l’impresa a pagare meno tasse o scontarlo e cederlo a sua volta alla banca o a qualsiasi altra impresa che abbia capienza fiscale.
Quella che sarebbe poi divenuta “una voragine nei conti pubblici” veniva presentata come “un sistema che si ripaga da sé”. Quando vengono annunciate, tutte le nuove spese pubbliche hanno “moltiplicatori” altissimi. I primi a dare manforte al governo sono, comprensibilmente, i costruttori edili, che stimano che una spesa per 6 miliardi di lavori produca benefici per l’economia pari a 21 miliardi di euro: “un moltiplicatore fiscale di addirittura 3,5!”. Le spese sono state assai maggiori, il moltiplicatore tristemente minore.
La spesa complessiva per i bonus edilizi nel triennio 2021-2023 è stata di 220 miliardi (160 miliardi per il solo Superbonus). Si tratta di una cifra all’incirca tripla rispetto alle previsioni iniziali (71 miliardi). In pratica, c’è stato un buco di bilancio da circa 150 miliardi di euro.
Sarebbe azzardato sostenere che il Superbonus non abbia contato nulla nel rimbalzo italiano post-Covid, e Capone e Stagnaro non lo sostengono. Sottolineano però come gli effetti siano stati assai diversi dalle aspettative.
Per quanto riguarda l’impatto macroeconomico, secondo la Corte dei Conti nel biennio 2021-2022 il Superbonus ha prodotto una crescita aggiuntiva complessiva dell’1,8% (su circa il 12% di crescita complessiva nel biennio). Per l’Istat, che stima un moltiplicatore fiscale tra 0,7 e 1,3, la crescita aggiuntiva si attesta in una forchetta tra 1,4 e 2,6 punti percentuali. Per la Banca d’Italia, che stima un moltiplicatore tra 0,7 e 0,9, l’impatto sul pil è stato circa +2%. Una stima analoga a quella del Ministero dell’Economia, secondo cui per effetto dei bonus edilizi il pil è cresciuto dell’1,9%. Per l’Ufficio parlamentare di bilancio, invece, l’effetto è stato di circa +1% nel biennio.
A bocce (relativamente) ferme,
L’Agenzia delle entrate e il Dipartimento delle Finanze del MEF hanno realizzato uno studio per stimare l’impatto del Superbonus sulle entrate rispetto a uno scenario senza Superbonus: il risultato mostra un incremento delle entrate pari all’1,1% nel biennio 2021-2021 che, rapportato al costo della misura nello stesso periodo, significa «una percentuale di copertura della spesa pari al 19,24% nei primi due anni». Un tasso di copertura molto vicino al 23% stimato dal Centro studi di Confindustria. Ciò vuol dire che il Superbonus non si è ripagato da solo per circa l’80%: il bicchiere è per quattro quinti vuoto.
Capone e Stagnaro citano lo scrittore Robert Heinlein: “elefante: un topo costruito secondo le regole del governo”.
Non si tratta però solo di una vicenda di stime sbagliate (quelle, per intendersi, che sono comprensibilmente costate il posto al Ragioniere generale dello Stato), ma di idee. Fraccaro si avvalse di tre collaboratori, i “Trento Boys” Giacomo Bracci, David Lisetti e Daniele Della Bona. E’ opportuno segnarsi i loro nomi, perché non è esagerato sostenere che si tratta dei consiglieri del principe di maggior successo degli ultimi anni.
Bracci, Lisetti e Della Bona sono gli animatori della FEF Academy, un think tank ispirato alle idee di Warren Mosler, il padre della cosiddetta Modern Monetary Theory.
Bracci assume un ruolo man mano rilevante nella definizione delle due policy più importanti del M5S: il Reddito di cittadinanza e il Superbonus. Nel primo caso Bracci è stato l’autore insieme a Pasquale Tridico, consigliere economico del vicepremier Di Maio e poi presidente dell’INPS designato dal M5S, di cui oggi è europarlamentare, di una teoria singolare ma ricorrente nel pensiero della MMT: il RDC si ripaga da sé. La tesi di Bracci e Tridico era che la spesa in deficit di 6 miliardi per il RDC ne avrebbe regalati al governo il doppio da spendere, sempre in deficit, l’anno successivo e nel pieno rispetto delle regole europee.
Siamo di nuovo al principio del si ripaga da sé. La MMT, tuttavia, è un approccio più ampio e coerente: per essa “la moneta in generale non è altro che un credito d’imposta, ovvero ciò che serve per pagare le tasse”. Crediti d’imposta scambiabili, come quelli del Superbonus, dovrebbero diventare “moneta fiscale, che produce debito pubblico”.
In buona sostanza, secondo la MMT non c’è problema che non possa essere risolto con più spesa pubblica, che metta in qualche modo quattrini in tasca alla gente. A renderlo impossibile è solo la narrazione ideologica per cui la spesa pubblica dovrebbe soggiacere a un vincolo di scarsità, ma
se la moneta si può stampare vuol dire che i soldi non possono finire («Dire che esiste una crisi monetaria è come dire che non c’è la lunghezza perché mancano i metri», affermava il viceministro del M5S Carlo Sibilia), e pertanto la capacità di spesa dello Stato è praticamente illimitata. Il vincolo di bilancio non esiste e il deficit è un “mito”, come recita il titolo del libro di Stephanie Kelton, l’esponente della MMT più conosciuta.
Uno Stato che ha il controllo sulla propria moneta è sempre in grado di ripagare qualsiasi debito pubblico denominato. Quindi, uscendo dall’euro e ritornando alla lira, saremo in grado di avere botte piena e moglie ubriaca, valori elevati di spesa e debito e crescita economica. Il bilancio pubblico è solo una partita di giro.
Prima del governo giallo-verde, queste teorie hanno avuto fortuna non solo fra i Cinquestelle ma in generale in tutta la galassia “anti-euro”, che infatti propone i cosiddetti “minibot”: “titoli di debito pubblico di piccola taglia, emessi dal MEF per pagare i debiti della Pubblica amministrazione, che poi sarebbero stati scambiati come una banconota”. Una sorta di valuta parallela rispetto all’euro (almeno nell’intenzione di chi la proponeva: non è detto che effettivamente i minibot sarebbero stati scambiati da persone convinte che fossero valuta), che non è mai diventata realtà un po’ per la ferma opposizione del ministro dell’economia Giovanni Tria e dell’allora ragioniere generale Daniele Franco. E un po’, diciamolo, perché l’establishment tutto fece muro, a cominciare dalla Banca d’Italia e, ça va sans dire, dalla Banca Centrale Europea.
Perché invece nessuno si è opposto al Superbonus, e anzi lo hanno cavalcato tutti, fino a quando ci si è accorti di avere speso 220 miliardi e messo la finanza pubblica su un binario morto per decenni?
Il libro di Capone e Stagnaro ricorda le responsabilità dei politici ma pure quelle dei tecnici, non solo quelli della Ragioneria generale dello Stato, che avrebbero dovuto almeno mettere in guardia il decisore e invece scelsero di blandirlo. E’ opportuno ricordare come, per 600 e rotti giorni dell’era Superbonus, anche i politici fossero “tecnici”: presidente del consiglio l’ex governatore della Banca d’Italia e presidente della BCE (che pubblicamente prese posizione contro il Superbonus ma scelse di evitare lo scontro coi partiti, che sarebbe stato necessario per abolirlo), ministro dell’economia l’ex ragioniere generale dello Stato che ai minibot si era opposto vigorosamente e invece il Superbonus si limitò a gestirlo.
Cos’era accaduto? Quella che segue è la risposta che do io, non Capone e Stagnaro. Era accaduto che le stesse persone che qualche anno prima liquidavano i “Trento Boys” come dei pazzerelli, poi si sono messi a dire e fare cose non troppo diverse dalle loro. L’establishment italiano ed europeo non era mai stato “neoliberale” o “liberista” che dir si voglia, ma aveva una certa consapevolezza di come un debito in aumento rappresentasse un problema, specie per un Paese che fa tanta fatica a crescere. Oggi quello stesso establishment sostiene che le spese a debito “si ripagheranno da sole”, spingeranno la crescita economica, accresceranno la produttività, basta fare “politica industriale”. Non è ben chiaro con che obiettivi, quali tecnologie, quali regole, etc, ma spendete spendete, qualcosa resterà. E ciò nonostante esempi recenti, come il Superbonus, che dovrebbero indurre persino il più fiero sostenitore di più-Stato-più-spesa ad ammettere, perlomeno, che la spesa non è tutta uguale.
I fautori della moneta fiscale la desideravano per uscire dall’euro, ma oggi di uscire dall’euro non hanno più bisogno. Il Superbonus non ha dato origine a una “valuta parallela” ma è stato l’espansione fiscale che essi desideravano. L’opinione pubblica in generale e il mondo degli “esperti” in particolare ieri temevano le loro ricette, oggi le abbracciano. Sotto questo profilo, le circostanze hanno fatto la differenza: politiche monetarie molto lasche hanno cambiato la percezione dei vincoli cui sono sottoposti i bilanci pubblici, la crisi Covid ha imposto al decisore di “fare qualcosa”, l’azzardato e fuorviante paragone fra la pandemia e la guerra ha fatto sì che questo qualcosa dovesse essere fatto “costi quel che costi” e i Trento Boys avevano un “qualcosa” bell’e pronto. Le idee, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto si ritenga.
Reggerà, il nuovo paradigma? L’inflazione degli ultimi due anni ne ha mostrato tutti i limiti, per quanto gli esperti abbiano proclamato più volte che era inflazione “importata”, “da costi”, che sarebbe finita da sé, che aveva torto Milton Friedman a sostenere che l’inflazione è sempre e comunque un fenomeno monetario. Chissà perché ha cominciato a scendere quando le banche centrali hanno alzato i tassi. Oggi i contribuenti hanno la fortuna di avere a via XX settembre Giancarlo Giorgetti, che della prudenza ha fatto la propria corazza e che non a caso è stato uno dei pochi critici coerenti del Superbonus: nel senso che oltre ad averne detto male, quando ha potuto ha anche provato a metterlo sotto controllo. Ma chi spera che il vento stia cominciando a cambiare deve arrendersi all’evidenza, ben testimoniata dall’ex Ragioniere generale dello Stato Mazzotta, che una volta osservò che “in prospettiva, dotarsi di modelli di valutazione ex ante dell’impatto è fondamentale”. Rileggete questa frase, e poi rileggetela ancora. Spendono decine di miliardi, nel caso del Superbonus centinaia, ne vorrebbero spendere ancora di più e il modello di valutazione ex ante dell’impatto è: la spesa si ripagherà da sola. Auguri.
Luciano Capone e Carlo Stagnaro, Superbonus. Come fallisce una nazione, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2024, pp. 214.
Pur non essendo un esperto, è da tempo che penso che in tema di finanza pubblica ed economia si vada avanti per tentativi. Comunque nonostante le buone intenzioni (di cui, ricordiamo, è lastricata la via per l'inferno) è stato un provvedimento pensato e applicato malissimo. Una misura ragionata e seria avrebbe concesso un aiuto stabile per almeno un decennio, di misura inferiore (massimo il 50%), e misurato sui listini in vigore che avrebbero dovuto essere bloccati. Ritengo che sia stata una misura azzardata, presa con eccessiva disinvoltura e con una pesante area "grigia" che fa nascere sospetti di collusione con centri di interesse di vario tipo.
Per capire se oltre ad essere stata l più grande manovra di politica economica sia anche stata la più grande abbuffata di pochi ai danni di tanti sarebbe interessante analizzare:
1. il breakdown per fascia di reddito dei beneficiari dei bonus vari (proprietari di palazzi signorili nei centri cittadini o lavoratori a basso reddito delle periferie?)
2. Ruolo e benefici per Big4, intermediari finanziari e non finanziari (chissà mai se sarà possibile ricostruire quante commissioni sono state pagate e a chi)
3. Moltiplicatore effettivo (Banca d’Italia aveva fatto in primo studio che sosteneva moltiplicatore < 1. Non so se è poi stato aggiornato.