The True Believer: Thoughts on the Nature of Mass Movements è il libro più famoso di Eric Hoffer. E’ il suo primo libro. “Fino al 1949”, ha scritto lui stesso, “nessuno sapeva esistessi”. Una volta pubblicato, The True Believer diventa rapidamente un caso letterario, vende mezzo milione di copie, vale al suo autore una visita alla Casa Bianca, insomma lo trasforma in una celebrità.
Il libro è insieme immerso fino al collo nei suoi tempi e totalmente al di fuori di essi. La forma è quanto di più eccentrico: un flusso di pensieri, come un saggio settecentesco. Hoffer, autodidatta, s’ispirava del resto nientemeno che ai Saggi di Montaigne. Ma il contenuto è pienamente novecentesco. E’ un libro che non poteva che uscire in quegli anni e negli Stati Uniti. E’ stato scritto godendo del privilegio della distanza dall’Europa, ma per riflettere sull’Europa: su quei “movimenti di massa” che avevano insanguinato il Novecento e che Hoffer trova drammaticamente simili, al punto che di “movimento di massa” non offre una definizione precisa. Ogni tanto ne parla riferendosi al nazismo o al comunismo, ogni tanto tira in ballo la religione, ogni tanto invece movimenti di carattere sociale. Nel suo libro si affacciano Hitler e Stalin, ma anche Gandhi e Lutero. Questi movimenti non li osserva, come tutti tendiamo a fare, concentrandosi sulla leadership. Non gli interessano la loro storia, le tappe attraverso cui si sono affermati, le dinamiche interne e lo scontro con altri movimenti e partiti. Non gli interessano neppure i rispettivi cataloghi di proposte e idee, la loro ideologia, ciò che consente a noi tutti di distinguere i rossi dai neri e viceversa.
E’ guardando al lato della domanda che Hoffer comprende come ci sia qualcosa che unisce questi movimenti: essi alimentano l’entusiasmo, il fanatismo, la vocazione a morire per la causa. In qualche modo, toccano sempre le stesse corde. Bolscevismo e fascismo hanno “articoli di fede, simboli, martiri e santi sepolcri”. Per Hoffer, “per quanto diverse possano essere le sacre cause per cui le persone si immolano, alla fine le persone muoiono sempre per la stessa cosa”. Diventare un “vero credente” significa aver trovato una chiave per dare senso al mondo, risolvere il fastidio della complessità e delle sfumature in una narrazione semplice, immediata, lineare. Vuol dire mettere finalmente a posto tutti i pezzi del puzzle del mondo, grazie all’energia unica e vivificante di un’idea o di un capo da seguire. Significa trovare il modo di “eternarsi”, di superare i propri limiti gettandosi in qualcosa di più grande:
la fede nell’umanità, nella posterità, nel destino della propria religione, nazione, partito o famiglia, che cos’è tutto questo se non la visualizzazione di un qualcosa di eterno alla quale aggiogare il proprio sé, sul punto dell’annichilazione?
I movimenti di massa non sono fondati da “veri credenti” bensì da artigiani della parola, intellettuali. Parte del compito di questi ultimi riguarda la costruzione di una visione falsata dello status quo. La “fede” del vero credente deve rispondere a un bisogno di salvezza, e questa non può che essere la salvezza da un mondo visto come un intrigo di abusi. Ma la soddisfazione offerta al singolo “vero credente” consiste in buona sostanza nel fargli dimenticare chi sia, nel perdere la dimensione individuale.
L’individuo totalmente assimilato non vede sé e gli altri come esseri umani. Quando gli viene chiesto chi sia, la sua risposta automatica è che è un tedesco, un russo, un giapponese, un cristiano, un musulmano, il membro di una certa tribù o famiglia. Egli non ha scopo, non ha valore e non ha destino indipendentemente da questo corpo collettivo: e finché vive il corpo collettivo egli non può morire davvero.
Hoffer è stato usato, in anni recenti, per cercare di leggere il terrorismo suicida così come pure il populismo. In realtà le sue riflessioni ci aiutano a mettere a fuoco caratteristiche comuni a ogni tipo di appartenenza. Anche delle appartenenze che troviamo più meditate e razionale. Quelle che ci illudono di non essere “credenti” affatto. E che tuttavia, a ben guardare, rispondono ai medesimi bisogni e offrono lo stesso genere di conforto. Il “filosofo portuale” ci insegna che è troppo comodo pensare che l’esercizio dello scetticismo si fermi sulla soglia delle nostre “illuminate” convinzioni.
Eric Hoffer, The True Believer: Thoughts on the Nature of Mass Movements (1951), New York, Harper, 2002 pp. 192.