Nel luglio di centoventi anni fa (ma potrebbero essere centoventiquattro, il certificato di nascita non è mai stato trovato e la sua infanzia è avvolta nel mistero) nasceva Eric Hoffer. In Italia ci piace spesso gratificare un intellettuale con l’aggettivo “irregolare”. E’ forse un lascito di quando il sistema dei partiti governava anche i prodotti dell’intelligenza ed esigeva che l’appartenenza determinasse i sentieri che si potevano prendere e quali che era meglio abbandonare. Fatto sta che quelli che ci piace battezzare “irregolari” e “anticonformisti” (da Pasolini a Montanelli) di solito sono scrittori prevedibili come i gialli più scontati, in cui a pagina cinque hai già indovinato l’assassino.
A Eric Hoffer, l’aggettivo calza meglio. Se non altro perché irregolare fu il suo percorso, pressoché unico nel novecento della repubblica delle lettere: da giovane fece lavori i più diversi, poi si sistemò come portuale a San Francisco, non frequentò l’università e quel che lesse lo lesse da solo, sulla base nemmeno del passaparola bensì del suo istinto e delle sue intuizioni. Per dire: siccome leggere gli piaceva, mentre girava la California come venditore di arance vide in una libreria i Saggi di Montaigne e li comprò perché, trattandosi del libro più voluminoso sugli scaffali, si aspettava gli riservassero più ore di lettura. Fu una scelta fortunata: innamoratosi di Montaigne, Hoffer si persuade a scrivere a sua volta. La sua opera più famosa è The True Believer, un autentico successo letterario. Piace persino a tre Presidenti: Dwight Eisenhower che lascia dire che si tratta del suo libro preferito, Lyndon Johnson che invita Hoffer alla Casa Bianca e Ronald Reagan che gli conferisce la Presidential Medal of Freedom.
The True Believer è un testo illuminante, nel quale la psicologia del “vero credente”, del volenteroso aderente alle “religioni politiche” del secolo scorso, è indagata senza ricorrere alla psicanalisi ma con molta introspezione e una straordinaria capacità di lettura dei fenomeni politici. Gli altri suoi lavori sono raccolte di saggi brevi, più un libro di aforismi, brillantissimi e spesso urticanti. Il metodo di Hoffer è lo stesso di un prosatore di tre secoli prima: osserva e riflette. I suoi saggi non sono intrecciati di riferimenti e Hoffer, pur potendo essere considerato un cold war liberal, attraversa gli anni Sessanta incurante delle evoluzioni intellettuali anche se spaventato da quelle politiche (a partire dal movimento studentesco). Ha sicuramente il gusto della battuta e ancor più della bella frase, il che di per sé dovrebbe farci riflettere: l’implacabile e sempre più ramificata divisione del lavoro intellettuale produce accademici con un vocabolario di cento parole, un autodidatta che però alla lettura dedica tempo e riserva passione acquisisce una magistrale padronanza della lingua inglese.
In Our Time è un libro del 1976. C’è un capitolo dedicato al “dull work”, ai lavori noiosi, del quale parlerò in altra occasione. Ce n’è anche uno sul denaro. Questo l’incipit:
Molti di noi spendono la gran parte del proprio tempo per soddisfare i bisogni delle altre persone. A un visitatore proveniente da un altro pianeta parrebbe che gli esseri umani, come le api, siano impegnati in una fatica disinteressata. Gli ci vorrà del tempo per scoprire che questa forma di abnegazione è indotta da una droga magica chiamata “denaro”.
Chiunque abbia ideato il luogo comune secondo cui il denaro è la radice di tutti i mali non sapeva quasi nulla sulla natura del male e molto poco sugli esseri umani. I mostruosi mali del ventesimo secolo ci hanno dimostrato che i più avidi arraffasoldi sono colombe gentili rispetto ai lupi che odiano il denaro come Lenin, Stalin e Hitler.
Senza incontri ravvicinati con l’economia politica, Hoffer aveva compreso che il denaro è un lubrificante della cooperazione umana. E temeva una società senza denaro, perché sapeva che in essa le persone avrebbero dovuto provare se stesse, affermare il proprio valore, ingaggiandosi in competizioni non mercantili: “la gente dimostrerà il proprio valore guadagnandosi titoli di studio, medaglie e gradi militari”. In una società siffatta ci sarà “altrettanto egocentrismo, invidia e malizia” quanto ve ne sono in presenza di denaro. Ma, presumibilmente, questi tratti dell’uomo produrranno esiti più bellicosi e distruttivi.
Fra parentesi, era anche la reazione del grande Milton Friedman nei confronti di chi associava deliberatamente “capitalismo” ed “avidità”. Non penserete davvero che le persone siano meno avide nella Russia brezneviana?, chiedeva. L’unica differenza era che Oltrecortina la loro avidità non si alimentava mettendosi a disposizione del consumatore e offrendogli ciò che desiderava, ma scalando le gerarchie politiche e militari. Il denaro non rende migliori gli uomini, ci mancherebbe. Li rende solo un po’ meno pericolosi, e non è poco.
Eric Hoffer, In Our Time (1976), Titusville, NJ, Hopwell Publications, 2008, pp. 100.