“Questo quotidiano nasce da una rivolta e da una sfida”. Così si apriva il primo editoriale del Giornale (allora Giornale nuovo, perché la testata Il Giornale era stata registrata da altri), cinquant’anni fa, cioè il 25 giugno 1974.
La sera prima, in tipografia, quando il «proto» da dietro il bancone allungò nelle mani di Montanelli la bozza della prima pagina, mentre si brindava all’evento con champagne caldiccio in bicchieri di plastica, Indro chiese a Egisto Corradi: «Che cosa te ne pare?». «Fa schifo», rispose il grande inviato. «E noi?» lo fulminò Montanelli. «Noi no, Direttore.» «Noi mai», aggiunse il Fondatore sorridendo.
Chi scrive è abbastanza vecchio da ricordare un bel libro sui vent’anni del quotidiano fondato da Montanelli, a doppia firma: Gian Galeazzo Biazzi Vergani, che era rimasto al Giornale sul quale Berlusconi aveva fatto valere i diritti dell’azionista, e Mario Cervi, che con Montanelli scrisse tredici volumi della Storia d’Italia e l’aveva seguito alla Voce (salvo poi tornare a casa). I vent’anni infatti caddero proprio in corrispondenza della “discesa in campo” che segnò pure il divorzio fra il grande giornalista toscano e il presidente del Milan e poi del Consiglio dei ministri.
La storia è nota e assieme non lo è. Il Giornale ventenne è un foglio un po’ affaticato, “l’azienda vuole introdurre l’uso dei computer” (figuratevi un po’: c’è stato un tempo in cui non ne esistevano, e poteva farne a meno persino un quotidiano!) mentre “i giornalisti, ed è un loro diritto, chiedono in cambio un aumento dello stipendio”.
L’epoca è di quelle in cui le copie cominciano a languire ma la stampa resta un settore incredibilmente più florido di quanto non lo sia oggi, gli inviati dormono in alberghi a cinque stelle, un corrispondente può mantenere col suo stipendio un appartamento in centro città. Il braccio di ferro fra editore (Berlusconi, ma Paolo, visto che al padrone di tre televisioni è fatto divieto di possedere un quotidiano) e redazione si risolve nella sospensione degli investimenti sine die. Al momento della discesa in campo, Berlusconi (Silvio, non Paolo) si presenta innanzi ai giornalisti e dice, in sostanza, di essere pronto a mettere mano al portafoglio, arriverà l’adeguamento tecnologico e pure quello salariale, ma beninteso se il Giornale sosterrà l’editore che intanto ha bevuto l’amaro calice. Montanelli s’arrabbia (e chi non si sarebbe arrabbiato?) e accelera un processo inevitabile, molla il ponte di comando, va (per pochi mesi) a dirigere la Voce e poi rientra al Corriere. Intanto in via Negri (lì stava la storica sede del quotidiano, fino a pochi mesi fa) arriva Vittorio Feltri, che lascerà la sua impronta sul Giornale per i trent’anni successivi
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Ma, spiega Luigi Mascheroni, su che cosa sia accaduto di preciso quel sabato 8 gennaio le versioni differiscono. I “montanelliani” (il compianto Federico Orlando e il giovane Marco Travaglio) sostengono che quando l’allora portavoce del Cavaliere, un ex giornalista del Giornale che di nome fa Antonio Tajani, aveva telefonato ai vecchi colleghi per chiedere se Berlusconi potesse affacciarsi in redazione, il Direttore avesse subito detto di no. Per altri, Berlusconi (può darsi) e nemmeno Tajani (più strano) non l’avevano neppure informato. La visita del Cavaliere cadeva in un momento particolare. Era in corso un’assemblea dei giornalisti. Dunque, il padrone veniva a parlare coi lavoratori che masticavano amaro contro le ristrettezze imposte loro.
Ma l’assemblea dei giornalisti, a cui il comitato di redazione sottopone la questione, dà il suo consenso (il Direttore invece, come vuole la consuetudine, non partecipava mai alle assemblee). Il Cavaliere sale al quarto piano e ai giornalisti presenti tiene uno dei suoi discorsi-arringa. Assicura che ci saranno nuovi investimenti e la tanto agognata «indennità» [per mettersi a picchiettare sulla tastiera di un computer] e come contropartita chiede l’appoggio del «Giornale» al partito che sta per fondare. La frase incriminata è: «Io vi do le munizioni, ma voi sparate dove dico io».
Secondo invece i “berlusconiani” che rimasero al Giornale,
Montanelli è avvisato dell’arrivo di Berlusconi e, restando nella sua stanza, al piano di sotto, commenta: «Silvio faccia quel che gli pare» (…) L’assemblea dei giornalisti dà il nulla osta all’intervento dell’editore (meglio: del fratello dell’editore) e Berlusconi si mette a parlare in mezzo alle scrivanie nella redazione del quarto piano. Esordisce sottolineando proprio il fatto che non lui, ma semmai suo fratello dovrebbe dare dei chiarimenti, ma siccome tiene alla trasparenza vuole spiegare in prima persona la decisione di passare da imprenditore a politico. (…) E fa un discorso - pieno di elogi a Montanelli - in cui si dice disponibile a rafforzare «il Giornale» con i mezzi richiesti dalla redazione, se darà segni di voler combattere questa battaglia, dove però non è chiaro se si riferisca alla battaglia editoriale contro la concorrenza degli altri più potenti quotidiano o la «sua» battaglia politica. Poi, nel momento in cui sta per uscire dalla stanza, un giornalista (è Nicola Crocetti, redattore degli Esteri, poi raffinato editore), gli chiede a bruciapelo: «Ma se lei si presenta alle prossime elezioni, cosa si aspetta dal “Giornale”?». «Naturalmente che mi appoggi» è la risposta. Affermazione legittima, ma scivolosa per l’indipendenza di un giornale. Da qui le dimissioni di una parte della redazione.
Il distacco di Montanelli dalla nascente destra italiana per molti rimane tutt’oggi un enigma, per altri rivelava la vera natura del personaggio: un bastiancontrario per il gusto di esserlo, poco a suo agio in qualsiasi coro. A tutti però ormai sfugge (è l’effetto, inevitabile, del tempo) ciò che Montanelli era per la pattuglia di teste e firme che si era riunita attorno nel corso degli anni. Luigi Mascheroni, giornalista del Giornale, a lungo alla cultura e oggi corsivista di prima pagina, lo racconta benissimo. Forse proprio perché, se non altro per questioni anagrafiche, non è mai stato “montanelliano” e se mai aveva il mito non dell’umbratile Montanelli ma del rigoroso, sereno e correttissimo Cervi, diventato una sorta di “nonno nobile” per alcuni giornalisti, come Mascheroni, entrati al Giornale a inizio anni duemila, pienamente inseriti nel nuovo schema del quotidiano e al contempo un po’ nostalgici di quello vecchio che non avevano conosciuto.
A inizio anni Settanta, l’editore del Corriere, Giulia Maria Crespi, considerava Montanelli “un pericoloso conservatore, lui le diede della «dispotica guatemalteca« (e in un’intervista al «Mondo» rilasciata al giovane Cesare Lanza la definì «Giuda Maria Crespi», dicendo che il «Corriere» aveva tradito il suo pubblico, la buona borghesia lombarda). Per qualche tempo i due convissero: con insofferenza reciproca, battibecchi a distanza e provocazioni logoranti. Alla fine, prima che lo mandasse via lei, se ne andò lui». E, come disse Franco Di Bella, si portò via l’argenteria: Enzo Bettiza, Gianni Granzotto, Guido Piovene, poi “Egisto Corradi, il migliore fra i giornalisti di guerra; Gianfranco Piazzesi, commentatore politico; Antonio Spinosa, storico; Cesare Zappulli, giornalista economico di primissimo ordine; Giancarlo Masini, pioniere del giornalismo scientifico; Mario Cervi”. E altri ne verranno.
Nessuno di loro apprezzava granché l’Italia fra il ‘68 e il ‘77, ma c’erano, come ci furono sempre, sfumature diverse nel loro essere non sempre e non necessariamente “di destra”, ma sicuramente non di sinistra. Montanelli tenne assieme le anime diverse di quel mondo sapendo che nessuna aveva le spalle larghe a sufficienza per fare a meno delle altre e creò un’orchestra nella quale tanti virtuosi riuscivano a cooperare con limitate invidie e gelosie. Nel ‘94, ad alcuni di loro parve che la semina del Giornale avesse finalmente dato frutto e non riuscirono a capire perché, anziché goderne, Montanelli dichiarasse guerra a gruppi politici che, più o meno, erano figli suoi. E’ vero che il Giornale aveva abbracciato in precedenza le battaglie di Mario Segni ma, proprio per quello, perché non festeggiare per il nuovo equilibrio bipolare del sistema italiano? Altri, invece, come Federico Orlando, ritenevano che un grande editore in politica, anche se era il loro, violasse l’abc della liberaldemocrazia. Altri ancora simpatizzavano coi primi ma seguirono i secondi: per fedeltà personale e ancor più per gratitudine.
Perché Montanelli non era un grande direttore, e lui stesso sosteneva di non esserlo ma di essere piuttosto “la bandiera di un manicomio”. Per i pazzi che l’avevano seguito su quel “vascello pirata”, egli era un autorità intellettuale assoluta, una sorta di padre “culturale” il cui prestigio era tutto fondato su due cose: primo, la maestria nel tenere in mano la penna. Secondo, il coraggio dimostrato nel momento in cui aveva provato a dare rappresentanza culturale a un pezzo d’Italia. Per alcuni, il distacco da Montanelli fu una sorta di omicidio accidentale del padre, un colpo sparato senza averne la minima intenzione.
Mascheroni cita dall’Italia degli anni di piombo:
Degli anni di piombo noi non siamo stati spettatori neutrali. Fondammo un giornale apposta per intervenirvi, e l’abbiamo fatto giorno dopo giorno, con quanta più incisività potevamo, e da posizioni in minor contrasto con quelle assunte, più o meno scopertamente, da quasi tutta l’altra stampa, quotidiana e periodica, nazionale. Fu una battaglia dura e difficile, che ci ha lasciato addosso parecchie cicatrici, e non parlo soltanto di quella materiale. Per tutti gli anni Settanta, e per i primi Ottanta, noi fummo indicati alla pubblica esecrazione come i fascisti, i golpisti, in una parola i lebbrosi. E forse saremmo ancora nel ghetto in cui ci avevano relegato, se a trarcene fuori dandoci completa ragione non fossero intervenuti i fatti.
Per inciso: che frase rotonda e montanelliana, quest’ultima. Giustamente di questi tempi si prende un po’ in giro il vittimismo della cultura di destra, che si prende rivincite un po’ pretestuose con la foga di chi s’abbuffa un po’ per essere stato troppo a digiuno e un po’ per paura che altri gli portino via il cibo di bocca (al contrario, con classe e intelligenza Alessandro Sallusti ha tolto dalla testata il claim “Da cinquant’anni contro il coro”, ricordando a lettori e collaboratori che oggi, pur in modo critico, essi sono opinione pubblica maggioritaria).
Pensiamo però che per molto tempo un giornale sulle cui pagine culturali scrivevano “Raymond Aron, Jean-François Revel, Gregor von Rezzori, John Kenneth Galbraith [nessun giornale è perfetto], Gustaw Herling, François Furet, Eugène Ionesco, François Fejto, Frane Barbieri, Vintila Horia, Anthony Burgess” e per le quali “Montanelli riuscì a strappare qualche pezzo persino a Jorge Luis Borges” era considerato uno sgabuzzino del pensiero. Si capisce di più, così, la voracità dell’intellettuale di destra contemporaneo, che sa di non essere Anthony Burgess e ricorda che nemmeno collaboratori simili riuscirono a far considerare il Giornale un foglio rispettabile. Sergio Ricossa mi ricordava che Giovanni Sartori, col quale pure erano amici, tornato in Italia lo motteggiava: ma quando ti deciderai a scrivere su un quotidiano che possa comprare?
C’entra, è vero, il fattore B, ma pure il fattore M come Montanelli. A lungo Berlusconi fu un editore prima abbastanza passivo, come la compagine originaria di supporter del quotidiano, poi invece fortemente coinvolto, ma nel senso di mettere un po’ d’ordine in un’impresa nella quale d’ordine ce n’era poco. Al capezzale del Montanelli che si prese quattro colpi nelle gambe dalle Brigate rosse (lo soccorse un giovane collaboratore dell’Avanti, poi firma del Corriere, Dino Messina), il Cavaliere piangeva a dirotto. “Non riuscivo più a staccarmelo dal letto. Si disperava, non faceva che chiedermi come mi sentissi. Gli feci notare che avevano sparato a me, non a lui. Non ci fu nulla da fare. Mi toccò fargli coraggio: temevo che mi svenisse sulla barella da un momento all’altro”.
Due personalità simili potevano convivere finché una ammetteva la superiorità dell’altra. Montanelli per Berlusconi fu a lungo una sorta di Coppa dei Campioni della cultura, della quale pavoneggiarsi con un mondo che vi aveva sempre trovato il proprio riferimento. Non a caso, in questi giorni circola un aneddoto: Berlusconi che va a casa e annuncia al padre d’aver comprato Il Giornale. Il babbo risponde: non dovevi, l’ho già fatto io. Come dire che babbo e mamma Berlusconi leggevano Montanelli ben prima che il figlio ne diventasse il mecenate.
I due, Montanelli e Berlusconi, erano personalità più affini di quanto s’immagini. Segaligno uno e rotondetto l’altro, uno alto e l’altro “1 e 70, quindi di statura più che media”, entrambi erano convinti di essere la stella attorno alla quale gira il sistema solare.
Come un vascello pirata unisce un bellissimo saggio di Mascheroni, che racconta Montanelli attraverso la sua giornata-tipo (tutta trascorsa al Giornale: “voglio morire con la testa che mi cade sulla macchina per scrivere”), a una selezione di articoli del Fondatore. Dei quali tocca dire una banalità sconcertante: restano pezzi di giornalismo semplicemente esemplari, di chiarezza cristallina, intrisi di sarcasmo quanto basta, godibili nonostante i decenni trascorsi. Questo vale un po’ meno per il trafiletto che contraddistingueva le prime pagine del Giornale, cioè l’epigrammatico “Controcorrente” montanelliano: perché se Montanelli produsse battute formidabili, alcune delle quali ricordate da Mascheroni, un commento di giornata abrasivo nel 1985 è improbabile mantenga il suo carattere quarant’anni dopo.
Completano il volume alcune testimonianze: colleghi (Breda e Mughini ma anche Michele Serra), certo, ma pure Pierluigi Bersani, Jocelyn, Monsignor Ravasi, Andrée Ruth Shammah, Enrico Vanzina, Mara Venier. A me sembra che la cosa più rilevante la scriva, in una paginetta di ricordi, Diego Gabutti:
Nel secolo delle idee salvifiche, l’età bislacca e dispotica in cui i Libri hanno combattuto tra loro una guerra di cui gli umani sono stati la carne da cannone e a troppi è toccato sacrificare la vita alle parole grosse, Montanelli sapeva in che conto tenere le idee: zero, nada. A lui interessavano le persone e le loro storie.
Questo spiega che cosa ne potesse pensare, di Montanelli, chi entra in libreria come ci si presenta alla visita di leva. Ma suggerisce pure che chi da quella cultura viene forse farebbe meglio a proseguire su quella strada: relativizzare il peso dei Libri nella vita e nella politica, anziché correr dietro come un disperato ai grandi Libri altrui.
Indro Montanelli con Luigi Mascheroni, Come un vascello pirata. 50 anni de il Giornale nelle parole del suo fondatore, Milano, Rizzoli, 2024, pp. 288.
"Il distacco di Montanelli dalla nascente destra italiana per molti rimane tutt’oggi un enigma"; se posso avanzare la mia spiegazione: mio papà, liberale malagodiano, ebbe "l'estremo oltraggio" di aver al suo funerale molti più ex comunisti che forzisti. Perché? Perché un uomo di destra liberale, pur condividendo le idee di B., non accettava lo strapotere dei soldi al di fuori del suo ambito proprio, cioè l'impresa. Che un miliardario potesse impadronirsi della politica era semplicemente inaccettabile. Tutto qui
Me lo ricordo il numero 1, l’aveva comprato mio papà, fedele lettore di Montanelli per molti anni. Ricordo gli auguri che Montanelli rivolse a noi universitari di fine anni 80, riuniti in un’associazione che si chiamava Controcorrente Giovani e aveva Ronald Reagan come politico di riferimento. Ricordo poi di aver incrociato lo sguardo di Montanelli nel ‘94, poco prima che lasciasse il Giornale, al Circolo della stampa a Milano, in occasione della presentazione del libro Americani, di Alberto Pasolini Zanelli.