Globalizzazione. A che punto è la notte
Nella solita, imperdibile intervista di Tunku Varadarajan sul Wall Street Journal, Phil Levy, il capoeconomista di Flexport, una società di logistica di San Francisco, spiega
The typical transit time for a container in pre-pandemic days was 71 days, Mr. Levy says. That’s how long it took for a full container to depart from Shanghai; discharge in Los Angeles; proceed to a warehouse near, say, Chicago; get trucked empty back to California; and then return to Shanghai. The current transit time is 117 days or more. The greatest delays are in the U.S., owing to port bottlenecks and trucking shortages. The Los Angeles to Chicago leg, for instance, now takes 22 days, 12 more than before. It takes 33 days for the empty container to return to California, compared with 20 in the old days.
Not only does it take much longer to import goods, it’s also become eye-wateringly expensive. “Where it might have cost $1,500 to move a container across the Pacific,” Mr. Levy says, “you’re seeing them go for more like $15,000 per container.”
La situazione è seria e complessa. La pandemia ha avuto conseguenze diverse da quelle attese. Da principio, ricordiamolo, tutti si aspettavano una “crisi dell’offerta”: la chiusura di fabbriche e uffici a causa delle misure di prevenzione da una parte, le conseguenti difficoltà nei movimenti di merci dall’altra, avrebbero dovuto mettere in ginocchio lo scambio internazionale. Invece il commercio internazionale ha avuto sì una battuta d’arresto ma di gran lunga inferiore alle aspettative. Le catene di fornitura si sono rapidamente riorganizzate. Anche nei giorni del lockdown, non solo abbiamo sempre trovato i cereali per far colazione al supermercato: ma abbiamo sempre trovato i nostri preferiti.
In un articolo per l’Economia del Corriere della sera, ho ricordato come le supply chain abbiano retto e anzi siano riuscite a ripensarsi con straordinaria rapidità. In qualche misura però questo “successo di flessibilità” ha a che fare con i problemi attuali, dal momento che l’aumento della domanda, in coincidenza del migliorare della situazione pandemica (speriamo…), ha incrociato una capacità produttiva che si era rapidamente convertita. In questo scenario, molti politici continuano a parlare di “rimpatrio” di tutta una serie di produzione come se ciò producesse automaticamente una maggiore “sicurezza” negli approvvigionamenti e non implicasse costi di sorta.
Nei settori dove assistiamo al palesarsi di scarsità particolarmente pesanti, oggi verifichiamo paradossalmente quanto le imprese siano state flessibili, riuscendo a trovare nuovi acquirenti per i loro prodotti in un contesto mutato. La WTO avverte che «politiche che mirano ad aumentare la resilienza economica riorganizzando la produzione, promuovendo l'autosufficienza e allentando l'integrazione commerciale possono spesso avere l'effetto opposto, riducendo la resilienza economica». In generale, la politica fatica a rendersi conto del vero elemento che differenzia la globalizzazione attuale dallo scambio internazionale nel passato: il fatto, cioè, che non si spostano solamente i prodotti che finiscono sugli scaffali dei supermercati ma anche «cose che servono a fare altre cose». Questo rende il protezionismo ancora più distruttivo.
Sul fatto che oggi si scambino non solo “cose” ma anche “cose per fare altre cose”, insiste molto anche Levy. Nell’intervista con Varadarajan, egli spiega che, grazie al mix di abbondanti sussidi Covid e restrizioni, osserviamo una contrazione della domanda di servizi e un aumento della domanda di beni durevoli:
Demand for durable goods—those, like Mr. Levy’s oven, that last longer than three years—dropped briefly after the pandemic started, then “shot right up in the early summer of 2020.” So while U.S. gross domestic product gradually recovered in the second and third quarters of 2020, the recovery in U.S. imports was much more rapid—reaching pre-pandemic levels by October 2020 and continuing to increase.
Characteristically, the percentage of personal-consumption spending on goods remains constant, Mr. Levy says: “It’s a really, really boring graph.” But in the pandemic “it’s gone haywire.” Whereas goods consumption previously “might move up or down by 0.2%, here you were seeing moves that were 10, 15 times that.”
The fall in spending on services, meanwhile, was a natural consequence of the pandemic. Consumption plunged about 20% in April 2020, as people stopped going to restaurants, on vacation and to gyms. Business travel crashed. “There’s been a slow, gradual climb,” Mr. Levy says, but consumption of services still hasn’t recovered to pre-pandemic levels.
Per Levy non ci sono soluzioni “magiche”, anche se aiuterebbe liberalizzare “trucking rules, traffic control, land-use regulation for stacking containers and port-opening hour” per migliorare l’efficienza della logistica. Bisogna soprattutto evitare di creare artificialmente nuovi colli di bottiglia e nuove strozzature. L’intelligenza collettiva del mercato ha i suoi limiti, ha bisogno di tempo per reagire ai cambiamenti (anche se meno di quanto si crede) ma scommettere su di essa è meno rischioso che affidarsi a qualche pianificatore la cui visione del commercio internazionale è per forza semplificata e parziale.