Questa settimana, in Alabama, Kenneth Smith è stato giustiziato con un’esecuzione per ipossia d’azoto. La notizia almeno per me più sconcertante non è tanto che è stato il primo condannato a venire ucciso in questo modo tremendo. Ma che fosse, per così dire, la sua seconda esecuzione. Nel novembre 2022, avevano preparato tutto ma non era stato possibile somministrargli un’iniezione letale. Per questo si è fatto ricorso, ora, a un metodo particolarmente crudele, secondo alcuni contrario all’ottavo emendamento, e che solo pochi mesi fa lo stesso stato dell’Alabama escludeva di usare.
Smith ha ucciso una donna, un crimine orrendo, nel 1988. Era stato condannato all’ergastolo, poi la pena venne mutata in una condanna a morte. Nel 2022, i tecnici dell’esecuzione non erano riusciti a trovare una vena adatta per l’iniezione letale. Giovedì è morto dopo ventidue minuti di sofferenze.
E’ facile giudicare la pena di morte un anacronismo crudele e liquidare gli americani come dei trogloditi del diritto. Sono però molti i fattori da considerare per comprendere il ricorso alla pena capitale in quel Paese: dalla percezione di insicurezza, alla stessa geografia di alcuni stati, alla cultura religiosa di chi ci vive. Sospettare tutti gli americani, o tutti gli abitanti dell’Alabama, di essere dei sadici è una scorciatoia intellettuale. Ma certo diventa difficile non farlo quando un’esecuzione viene messa in scena due volte: come se il pathos della prima, e la pena di una vita passata ai ceppi, non fossero sufficienti a placare l’angoscia dei familiari della vittima e la fame di “giustizia” dell’opinione pubblica.
La potenza egemone, che fa e sponsorizza guerre in giro per il mondo in nome dei diritti umani, poi fa questo in casa propria? Fuori da casa propria, non troppo lontano dalla porta d’ingresso, si comporta in modo non troppo diverso.
Don’t Forget Us Here di Mansoor Adayfi (scritto assieme con Antonio Aiello) è la storia di un ragazzo yemenita di diciott’anni, di famiglia modesta ma decorosa, spedito da un professore a fare ricerche sul campo in Afghanistan per averne in cambio una lettera di raccomandazione per un’università degli Emirati Arabi. In Afghanistan viene sequestrato dai “signori della guerra”. Fra le diverse fazioni in cui è diviso il Paese, quelle ostili ai talebani hanno trovato un business interessante: vendere terroristi veri e presunti agli americani. Questi lo comprano, lo strapazzano per bene a Kandahar e poi lo spediscono a Guantanamo.
Leggere quanto gli accade nel campo di prigionia cubano è un pugno nello stomaco. Adayfi ci passa quattordici anni, uscendo ed entrando dalle celle di isolamento. Nei suoi primi interrogatori, deve barcamenarsi sotto una gragnola di domande che non hanno nulla a che fare con la sua storia, con il suo profilo. Da yemenita viene ribattezzato egiziano, gli chiedono a ripetizione dove sia Osama Bin Laden, da un ragazzo di 18 anni che quand’anche fosse veramente parte di Al Qaeda non sarebbe che l’ultima delle pedine vorrebbero estrarre notizie sul prossimo attentato. E ancora e ancora e ancora. Capisce presto che i suoi “intervistatori” non sanno nulla dell’Islam e del Corano. Poco di più sanno o si sforzano di sapere delle persone che hanno davanti. I traduttori non sono molto bravi, il loro arabo è claudicante, i prigionieri non sanno l’inglese. I militari partono dall’assunto che i prigionieri mentono e che invece integerrimi fossero i trafficanti di uomini che glieli hanno venduti. Un tagliagole mi ha garantito che quello è un terrorista, vuoi che non lo sia?
Le torture messe in atto sono le più diverse e sfidano l’immaginazione del lettore. Per esempio, un aspirapolvere, piazzato innanzi alla cella, e fatto andare di continuo, al punto che il detenuto rinunci a seguire il flusso dei suoi stessi pensieri. Li spostano da un edificio all’altro, da una serie di celle all’altra. In alcune non c’è luce. Dopo averglielo mostrato, a un certo punto decidono di tenerli lontano dal mare “per la loro sicurezza”, come se “sospettassero che Osama Bin Laden potesse arrivare un giorno sulla spiaggia col suo esercito di Al Qaeda per venirci a prendere”.
I detenuti protestano. La risposta da principio è: “non avete diritti, ci avete rinunciato quando vi siete uniti ad Al Qaeda”. Cambiano i generali e cambia il modo in cui gli “ospiti” della struttura vengono trattati. Nella fase più dura, un compagno di prigionia di Adayfi si lamenta per il mal di denti. Lo portano dal medico, solo per restituirlo alla sua cella senza più un dente in bocca.
Guantanamo era un mondo sottosopra in cui nulla aveva senso, ed era così che piaceva a chi ci interrogava. Era un luogo dove il sale valeva più dell'oro, la luce del giorno esisteva solo nei nostri sogni, le iguane avevano più diritti di noi e le regole cambiavano quotidianamente.
Adayfi riesce a fare la sua prima telefonata a casa sette anni dopo il suo arresto. Quando, nel libro, racconta l’emozione nel sentire la voce del padre e della madre il lettore fatica trattenersi. Fa diversi scioperi della fame, il più lungo di 57 giorni, per ottenere un trattamento vagamente umano. Noto come il prigioniero 441, riesce a tenere in mano i fili della propria vita con una forza di volontà straordinaria e una dignità sorprendente. Provano a corromperlo, per farlo confessare crimini che non ha commesso e diventare il testimone chiave in un processo. Gli promettono 150 mila dollari, una macchina, una casa, la cittadinanza di un Paese europeo e ciò che desiderava al punto da lasciare, mal gliene incolse, lo Yemen per l’Afghanistan: un’istruzione universitaria. Rifiuta, perché gli è rimasto solo il rispetto che conserva per se stesso.
Obama promette di chiudere Guantanamo e non lo fa, anche se migliora le condizioni dei prigionieri. Ad Adayfi viene finalmente assegnato un avvocato, perché la Corte suprema ha riconosciuto anche ai detenuti a Cuba il diritto di chieder conto della propria pena. Il legale che gli viene assegnato in passato ha difeso tipi piuttosto loschi, gli racconta, ma aveva strizza di incontrare lui. Sui documenti, è descritto come il peggio del peggio, un individuo più pericoloso dei galeotti più efferati. Rimane stupito quando si trova innanzi un ragazzo, non Hannibal Lecter.
Mansoor Adayfi esce da Guantanamo quattordici anni dopo esserci entrato, quattordici anni nei quali nessuno ha dimostrato egli fosse un terrorista e per la più parte dei quali è stato trattato come neanche una bestia feroce. Nel suo racconto, anche dalla parte dei carcerieri compaiono, ogni tanto, persone perbene, donne e uomini che hanno pietà di chi gli sta davanti, che eseguono gli ordini ma non chiudono gli occhi. Un ufficiale di marina, nel congedarlo, gli dice che “il governo americano non dirà mai quel che ti sto per dire ma credo tu meriti di sentirlo. Mi dispiace che tu sia stato detenuto in questo modo per così tanti anni. E’ stato un errore, un errore veramente evidente, e non avresti mai dovuto essere qui”.
Intanto sono passati quattordici anni: non è la metà della sua vita ma poco ci manca. Guantanamo c’è ancora e di lì sono passati centinaia di prigionieri. Le denunce dei giornalisti, le critiche di Amnesty International e delle Nazioni Unite sono servite a poco. Colin Powell una volta si fece scappare che, guardando al campo di prigionia, il mondo avrebbe avuto tutta la ragione di chiedersi se gli Stati Uniti per primi rispettavano gli elevati standard in tema di diritti umani che teoricamente esigono dal resto del pianeta.
E’ sempre facile pensare che ci siano delle guerre che sono “giuste” e che fra i belligeranti uno solo abbia il monopolio del torto. Ammesso che questo sia mai davvero avvenuto e non sia solo una favola della buonanotte che ci raccontiamo per addormentarci meglio, restare nel giusto è più difficile di quanto non lo sia trovarsi, in un certo momento, dalla parte della vittima.
Mansoor Adayfi, Don't Forget Us Here: Lost and Found at Guantanamo, New York, Hachette Books, 2021, pp. 385.