Questo è un libro che andrebbe letto durante il liceo. C’è dentro tanto realismo pacato, che potrebbe convincere alla prudenza persino l’attivista più arrabbiato. Will e Ariel Durant scrissero una monumentale Story of Civilization in undici volumi. Ricordo che quand’ero ragazzo era costantemente reclamizzata nel volantino di Laissez-Faire Books, una libreria libertaria nata a New York e poi trasferitasi a San Francisco che vendeva anche per corrispondenza. Prima di Amazon, attraverso di essa liberali di tutto il mondo si procuravano ultime novità e classici smarriti.
I Durant non erano necessariamente libertari nel senso mio e degli altri clienti di Laissez-Faire Books, ma erano atei, cosa che li rendeva assai simpatici alla tribù dei seguaci di Ayn Rand (fra parentesi, c’è un nuovo podcast dell’Istituto Bruno Leoni, sulla vita e sull’opera di Rand). I loro libri ebbero un successo straordinario, in un contesto come quello del dopoguerra, nel quale una popolazione molto più alfabetizzata di quelle che l’avevano preceduta (e lieta di esserlo) desiderava “farsi una cultura”. In Italia, è stata l’epoca delle enciclopedie vendute porta a porta e della Storia d’Italia di Indro Montanelli, che sarà stata imperfetta e infarcita di pregiudizi quanto si vuole ma fu il modo in cui due generazioni impararono i nomi dei re di Roma.
Abilissimi divulgatori, i Durant avevano alle spalle studi attenti. Questo volumetto, poco più di cento pagine comprensive di Introduzione e Postfazione, è una sorta di summa del loro pensiero. La domanda da cui parte è: che cosa insegna, allo storico, la storia che ha studiato? La risposta è un manifesto di umiltà.
La nostra conoscenza di qualsiasi evento passato è sempre incompleta, probabilmente imprecisa, offuscata da testimonianze ambivalenti e storiografi di parte, e forse distorta dalla nostra stessa partigianeria patriottica o religiosa. (…) Dobbiamo operare con una conoscenza parziale e accontentarci provvisoriamente delle probabilità (…) Forse, entro questi limiti, possiamo imparare dalla storia quanto basta per sopportare con pazienza la realtà e rispettare ognuno le illusioni dell’altro.
Sopportare con pazienza la lealtà e rispettare ognuno le illusioni dell’altro non è poca cosa, anche se sicuramente non è smontare e rimontare la società come un gioco, del quale in molti hanno pensato la storia fosse il libretto d’istruzione. Invece i Durant ritengono che la storia ci insegni anzitutto cautela sui suoi presunti ammaestramenti. Per trovarci un po’ di senso, bisogna pescare nelle leggi della biologia (“la vita è competizione. La concorrenza è l’anima della vita stessa”), nella geografia (“la matrice della storia, la madre che la nutre e la casa che la forma”) e nell’economia (ma senza cadere nel determinismo: Marx “sottovalutava il ruolo svolto nel comportamento delle masse dagli incentivi non economici: il fervore religioso, l’ardore nazionalistico, la furia autofertilizzante delle folle”).
Le lezioni della storia consistono sostanzialmente nel rifiutare formule attraenti, ma truffaldine, che impacchettano con troppa leggerezza il comportamento degli esseri umani in poche scatole immutabili. Se si può apprendere qualche lezione dal nostro passato è perché, sostengono gli autori, esistono regolarità tali nelle nostre vicende, perlomeno dall'antico Egitto a oggi, che possiamo considerarle “natura umana” e presumere che tale “natura” resti più o meno quella. Se la storia si ripete, è solo “a grandi linee”. Essa è un conflitto fra minoranze, nel quale i più sono sostanzialmente degli spettatori, ma è pur vero che noi tendiamo a raccontarla come un’eterna battaglia fra personalità illustri mentre “se tutti quegli individui che non hanno avuto un Boswell avessero trovato posto nelle pagine degli storici in proporzione al loro numero, noi avremmo una visione del passato e del genere umano più opaca ma più giusta”.
Se difendono una prospettiva sostanzialmente individualistica contro organicismo e teorie razziali, i Durant sostengono che vi sia un trade off ineliminabile fra libertà e uguaglianza, destinate a mangiarsi a vicenda prima di trovare un equilibrio, per quanto precario. Mettono in prospettiva l’idea di progresso, senza negarne la funzione: la scienza, purtroppo, è “neutrale”, può guarire come la penicillina ma anche uccidere come la bomba atomica (forse non “la scienza” ma il metodo scientifico e l’abitudine a praticarlo possono però sostenere la tolleranza, il rispetto reciproco, il gusto della libertà); se il progresso viene identificato con “l’aumento della felicità” diventa “una causa persa quasi automaticamente” perché “la nostra capacità di afflizione è infinita e, per quante difficoltà superiamo, troveremo sempre una scusa per essere magnificamente infelici”. Spiegano che le società dipendono da “codici morali” che le tengono assieme e che “prima dei nostri tempi, non c’è alcun esempio significativo di una società che sia riuscita a mantenere una vita morale senza l’aiuto della religione”. Contro la retorica della decadenza, sostengono che una civiltà non muore mai davvero e ci ricordano che Omero ha più lettori oggi di quanti ne abbia mai avuto (e che, potremmo aggiungere, più persone ascoltano le sinfonie di Beethoven di quanto sia mai accaduto).
Nella sua Prefazione, Ferruccio De Bortoli trae dal libro la lezione che “la tentazione di scambiare protezione e benessere con i diritti di libertà, conquistati da altri di cui si è persa nel tempo la memoria, può essere irresistibile”. Il capitolo-manifesto del libro a me sembra essere quello su storia e guerra, intriso di realismo e buon senso assieme. Le cause della guerra, notano, sono le stesse della competizione fra individui: si desidera la roba e il territorio d’altri, si viene accecati dalla sete di dominio. Guai però a perdere di vista un dettaglio. “Lo stato ha i nostri stessi istinti senza i nostri freni”.
Will & Ariel Durant, Le lezioni della storia (1968), prefazione di Ferruccio De Bortoli, Milano, Settecolori, 2023, pp. 140.