Se questo libro fosse stato scritto in lingua inglese, sarebbe già riconosciuto come un classico del pensiero liberale. Sfortunatamente, però, fu scritto in italiano: un italiano bellissimo, quello sempre terso e assieme sorprendente di Sergio Ricossa (1927-2016). Ora è stato tradotto in spagnolo, lingua nella quale i libri, anche quelli necessariamente “di nicchia”, come questo che scava nel retaggio comune di Karl Marx e John Maynard Keynes, hanno un mercato più vasto.
La fine dell’economia è il capolavoro di Sergio Ricossa. E’ un saggio di altri tempi. Non si tratta infatti di un lavoro scritto per onorare quelle regole formali che consentono di identificare con sicurezza un lavoro accademico: le note sono poche, i riferimenti alla letteratura più aggiornata sparuti, l’attenzione a rimanere all’interno degli argini disciplinari totalmente assente. Ricossa scrive per un lettore colto e curioso, non per lo specialista. Eppure o forse proprio per questo il suo libro, come ha osservato una sua attenta lettrice iberica, la professoressa Maria Blanco, è “l’equivalente di un corso completo sulla storia del pensiero economico”.
Mentre nello strano dibattito dei nostri giorni il filosofo di Treviri e l’economista di Cambridge sono visti come compagni d’arme, precettati l’uno e l’altro nell’esercito dei “resistenti” al capitalismo selvaggio, al pensiero unico, al “neoliberismo”, quando scriveva Ricossa e più ancora nei primi anni della sua carriera la situazione era assai diversa. Era quasi un luogo comune che Keynes avesse rattoppato gli strappi del capitalismo al fine di salvarlo e, pertanto, rappresentasse la miglior sentinella che il pezzo di mondo che non aveva statalizzato i mezzi di produzione potesse trovare. Ricossa stesso curò, negli anni Sessanta, una tutt’ora utilissima antologia degli articoli politici di Keynes, riconducendolo alla tradizione liberale.
La fine dell’economia però cerca motivi e orientamenti di fondo che precedono le proposte e orientamenti puntuali. Marx e Keynes sono entrambi “perfettisti”. La differenza più rilevante per Ricossa, quella che davvero separa dottrine e pensatori, è quella fra “perfettismo” e “imperfettismo”. Il riferimento esplicito a un’ideale di perfezione può non apparire nel ragionare apparentemente sobrio degli scienziati sociali contemporanei ma esso “è spesso approvato per tacito accordo su quanto è irrefutabile per definizione. Il sommo bene è un ideale indiscutibile, per chiunque e per tutti (o così sembra): in un certo senso è obbligatorio”. Solo “l’imperfettista radicale non si limita a sostenere che la perfezione è impossibile, almeno su questa terra” ma “pretende che, se pure si realizzasse, sarebbe oppressiva”.
Il perfettismo è uno “schema di salvezza totale” che “presuppone tre idee: quella di perfezione, quella di diagnosi del male che separa dalla perfezione, e quella di rimedio definitivo al male”. Le variazioni sul tema sono note. Buona parte del nostro discorso pubblico procede esattamente in questo modo: dopo l’identificazione di un male sociale che blocca la via verso la perfezione si cerca, nel suo sradicamento, la soluzione di tutti i problemi.
Ricossa non è certo il solo a segnalare la hybris del “sentimento rivoluzionario” o i motivi religiosi che vengono secolarizzati nelle ideologie politiche. Ma riesce a trasportare queste considerazioni nel campo del pensiero economico, sottolineando come critiche pure diverse all’economia di mercato siano spesso unite da una nostalgia per un mondo perfetto, libero dalla dittatura del cambiamento che segna le “società commerciali”. Una postura intellettuale antica, che risale forse a Platone, ma che gli intellettuali moderni, inclusi i due titani Marx e Keynes, sembrano condannati a ripetere.
Nella cultura signorile la ricerca del perfetto e la fuga dall’economico si sposano perché l’economico, soprattutto nella specie del mercato e della moneta, appare come l’antitesi del perfetto. L’economico è alienazione, cioè divisione dell’Unione: divisione tra libertà dello spirito e necessità corporea, tra vita nobile e vita materiale; divisione del lavoro; divisione del corpo sociale in classi contrapposte, in individui competitivi; divisione tra uomo e natura, tra uomo e merce; divisione o privatizzazione della proprietà; divisione del valore assoluto in valore relativo e spicciolo. L’economico è scadimento dell’Essere a contingenza o congiuntura; è produzione e consumo, trasformazione, distruzione, innovazione, alea; è fatica quotidiana perché attività sempre precaria, mai definita. Pertanto, non vi può essere perfezione senza la fine dell’economia
Speriamo che i lettori spagnoli si accorgano, meglio e prima di noi, di avere per le mani un libro geniale.
Sergio Ricossa, El fin de la economìa: ensayo sobre la perfección (1986), Madrid, Union Editorial, 2022, pp. 278