Nell’ultima settimana, l'alcool è entrato di prepotenza nel dibattito pubblico. La storia è nota. Quel bifolco del Presidente americano Donald Trump ha messo una tassa del 25% sulle importazioni di acciaio e alluminio. La coltissima e sempre azzimata Ursula von der Leyen, consigliata da un team di raffinati liberi pensatori che guida con sicurezza l’Europa in queste acque perigliose, ha risposto con un dazio del 50% sulle importazioni di whisky, motociclette e motoscafi di produzione statunitensi. Il primo allora è tornato alla carica, annunciando un prossimo dazio del 200% su vino, champagne e “prodotti alcolici che vengono dalla Francia e dagli altri Paesi UE”. Non c’è mai stata, probabilmente, una più plastica rappresentazione della “logica”, chiamiamola così, del protezionismo.
S’ode a destra uno squillo di tromboni, a sinistra risponde uno squillo. Prima gli Usa tassano l’industria americana delle costruzioni, dei macchinari e dell’automotive, cioè i comparti che più consumano acciaio. Poi l’Unione europea, colpita nell’orgoglio, risponde alzando i prezzi ai malcapitati appassionati europei di Harley Davidson in procinto di cambiare moto e già che c’è pure agli ammiratori europei di Bourbon del Kentucky. Ancor più feriti nell’orgoglio, gli Stati Uniti replicano tassando i consumatori americani di Bordeaux e Prosecco. I proprietari di negozi di liquori dell’Ontario, per sentirsi a pari del presidente americano e della lìder maxima dell’Unione europea, hanno già sbaraccato gli scaffali in cui esponevano Bourbon e vini della California, sostituendoli con varianti locali e cartelli che proclamano il dovere di bere quelli anziché quelli che si desidererebbe bere, “For the good of Canada”.
Se la storia serve a qualcosa, è a consolarsi quando il presente sembra una sfilata ininterrotta di balordi. Non è certo la prima volta che l'alcool occupa il proscenio della politica e con tutta probabilità non sarà l’ultima.
The politics of alcohol: A history of the drink question in England di James Nicholls si interessa solo dell’Inghilterra e precipuamente di politica “interna”, ma rende bene l’idea di quanto e perché i politici si siano immischiati in faccende di birra, vino, gin e whisky. Il saggio deve molto alla History Of Liquor Licensing In England Principally from 1700 to 1830 di Beatrice e Sidney Webb, che Nicholls cita abbondantemente. Già nell’introduzione si riporta un’affermazione di Keynes del 1925. Per l’economista, gli unici due punti programmatici dell’antica piattaforma liberale che ancora tenessero il mare erano “la questione del bere e il libero scambio”. Ricorda Nicholls che
il mezzo secolo tra il 1870 e il 1920 aveva visto elezioni combattute e perse sulla questione del controllo dell'alcol, la creazione e l'abbandono dei manicomi per il trattamento degli ubriachi, ripetuti sforzi parlamentari per introdurre il proibizionismo, l’apertura di una impresa di pub da parte di un vescovo anglicano, la parziale nazionalizzazione dell'industria dell'alcol, mentre il bere veniva descritto dal primo ministro in carica allo scoppio della prima guerra mondiale come una minaccia più grande dell'Austria e della Germania messe assieme.
L’ingresso della “questione del bere” nel discorso pubblico è fatto risalire da Nicholls alla riforma protestante, anche se in Inghilterra il prezzo della birra era legato al prezzo del pane, per legge, dal 1266 (per quanto la norma fosse applicata “nel modo più ad hoc immaginabile”). Dal 1393, le birrerie “sono state obbligate a esporre un paletto davanti alle loro porte - una pratica che alla fine ha portato allo sviluppo dell'insegna del pub. Nel 1494, una legge che si occupava dei poveri itineranti diede ai giudici locali il potere di rifiutare la vendita comune di birra, quando necessario”.
La politica della birra è intrecciata a questioni “di welfare”. L’assistenza ai più disagiati dipendeva dalla rete delle “parrocchie”, presso le quali i poveri erano registrati (di qui l’ostilità per il libero movimento delle persone: non ci si voleva trovare nella situazione di far fronte a un numero crescente di bisognosi). La birra senza luppoli, che per secoli è stata un consumo primario degli inglesi (“più densa, più debole, più dolce e molto meno stabile della birra luppolata”), era per lo più fatta in casa e quindi gli esercizi che la vendevano erano in concorrenza con la produzione domestica. “Fare la birra era la professione di una persona povera - spesso l’ultima spiaggia dei disperatamente bisognosi”. Fino all'introduzione del luppolo, non c’erano produttori che operassero su una certa scala nonostante “il mercato della birra fosse costantemente in crescita, dal momento che le sorgenti di acqua erano sempre meno affidabili a causa dell’aumento della popolazione”.
Se fare la cervogia è l’ultimo gradino cui aggrapparsi prima di risolversi a chiedere un sussidio, la birra è pure uno strumento di raccolta fondi per le parrocchie, che organizzano feste attorno a una consegna di birra speciale, utilizzando i proventi per finanziare le attività caritatevoli. Questa pratica viene frenata da Enrico VIII nel 1529 e più in generale biasimata dalla Chiesa d’Inghilterra, che desidera distanziarsi così dal vecchio cattolicesimo. Per i puritani, c’è qualcosa di terribile nel fatto che gli uomini di chiesa traffichino in alcolici. Da una parte, troviamo l’idea tradizionale che qualche eccesso periodico, accettato e proprio per questo ben regolamentato, possa rappresentare una valvola di sicurezza per la tenuta della comunità. Dall’altra, il bisogno di cominciare a vedere la vita come “un progetto disciplinato di sforzi razionali”.
L’introduzione di un permesso specifico, cioè di una licenza, per vendere birra risale al 1552: prima di allora, chiunque poteva aprire una birreria, anche se i magistrati avevano il potere di chiuderle in caso creassero problemi “intollerabili” alla comunità locale. Bisogna tuttavia aspettare la fine del Settecento perché la concessione di una licenza sia legata “al principio del bisogno”, ovvero per la trasformazione della licenza in uno strumento di pianificazione urbanistica. Solo allora, infatti, i magistrati acquisiscono il potere di decidere se un nuovo esercizio che venda alcolici debba aprire oppure no. “In questo modo il ruolo del magistrato non si limitava ad accertare la buona reputazione dei potenziali gestori di pub, ma decideva anche in anticipo se fosse necessario aprire una nuova birreria o una locanda”.
Nicholls legge i secoli successivi in parte come un processo di “politicizzazione della sobrietà”, nella consapevolezza che il significato che noi attribuiamo a questa parola era pressoché sconosciuto prima di fine Ottocento. Una “perfetta sobrietà” era pressoché inarrivabile: bere altro che acqua significava bere qualcosa di più salubre dell’acqua. “Nell'Inghilterra della Restaurazione anche una relativa sobrietà (per gli standard del XXI secolo) era inusuale. Una cospicua sobrietà avrebbe suscitato un certo sospetto già solo per la sua stranezza, per non parlare delle preoccupanti ossessioni religiose che avrebbe potuto rivelare”.
Vino e birra diventano a loro volta simboli politici:
Per i Tory, il vino era sinonimo di raffinatezza, convivialità, arguzia e buon gusto. Era anche sinonimo di fedeltà alla corona. Per i Whig, il vino era sinonimo di snobismo, affettazione continentale e, soprattutto, di una sospetta francofilia di stampo cattolico. Dall'altra parte, i Whig dipingevano la birra come onesta, sostanziosa, senza pretese e, soprattutto, inglese. I Tory vedevano i bevitori di birra Whig come noiosi e miserabili, se non violenti quando alzavano il gomito.
Nel 1679, un embargo (ecco il protezionismo, in tutto il suo splendore mercantilista) sui beni d’origine francese porta al rapido sviluppo del commercio di vino col Portogallo.
Le vendite di Porto aumentarono del 30% nell'ultimo quarto del XVII secolo. L'affermarsi del Porto come drink per gentiluomini per eccellenza nel XVIII secolo fu aiutato in modo significativo dal Trattato di Methuen del 1703. Questo accordo, redatto dal diplomatico John Methuen per portare il Portogallo dalla parte della guerra di successione spagnola, consentiva di ridurre i dazi sul vino portoghese in cambio di una riduzione analoga dei dazi sui prodotti di lana importati in Portogallo dalla Gran Bretagna. Il Porto, dunque, è un vino nato da una necessità politica - cosa che la vista di nomi poco portoghesi come Cockburns, Sandemans e Croft, che ancora oggi costeggiano le rive del Douro, conferma.
Non troppo diversamente, un secolo e mezzo dopo quando Richard Cobden negozia il Trattato “Cobden-Chevalier” che pone fine alla rivalità fra Francia e Inghilterra, uno dei suoi obiettivi è ridurre i dazi sulle importazioni di vino francese. Ormai il Porto è diventato il vino degli aristocratici, mentre i ceti emergenti vorrebbero Borgogna e Bordeaux.
Nicholls dedica un bel capitolo alla cosiddetta “gin craze”. Il gin non fu il primo distillato a essere prodotto in Inghilterra, ma fu il primo ad ottenere vastissima popolarità. Dopo la Gloriosa Rivoluzione, Guglielmo III vuole rendere popolare “la geneva olandese”, che da principio è priva delle connotazioni politiche associate al vino o alla birra.
Essendo ricavato dal mais anziché dall'uva, il gin può essere prodotto utilizzando materie prime britanniche per rifornire un mercato britannico. Ancor più del porto, il gin rappresentava un baluardo culturale ed economico contro la Francia cattolica. A un anno dall'incoronazione di Guglielmo, il Parlamento vietò l'importazione di brandy, grappa e altri liquori stranieri. Il provvedimento fu revocato solo cinque anni dopo, e anche in quel caso fu mantenuto il divieto sulle importazioni francesi. (....) Soprattutto, e in netto contrasto con il commercio del vino e della birra, per il gin non era richiesta alcuna licenza di alcun tipo. Niente corporazioni, niente interessi protetti, niente licenze.
La produzione di gin somiglia un po’ all’ideale economico di Donald Trump: forti barriere alle importazioni, ma internamente pochi vincoli alla produzione di beni “nazionali”. Nell’Inghilterra del Settecento, l’esito è la proliferazione del gin deregolamentato a scapito delle alternative regolamentate. I contraccolpi sociali, data la natura del bene prodotto, ci sono, al punto che Nicholls ricorda come Daniel Defoe, autore di una ispirata difesa dei distillatori, nella quale sostiene in buona sostanza che come i camerieri non sono responsabili dell’obesità dei clienti neppure lo sono della loro ubriachezza, poi cambia idea e difende appassionatamente l’intervento pubblico. “Patrick Dillon ha stimato che il consumo di gin a Londra, nei primi venti anni del Settecento, fosse di circa una pinta alla settimana per ogni uomo, donna e bambino della città, Roy Porter ha calcolato che la quantità aveva raggiunto il doppio al culmine del gin craze, nei primi anni Quaranta”. Gli argomenti utilizzati non sono poi tanto diversi da quelli che, più recentemente, sono stati messi in campo per le droghe.
Qualcosa di simile, secondo Nicholls, accade negli anni Trenta dell’Ottocento, quando il Beer Act liberalizza la vendita di birra, richiedendo un modesto tributo anziché sottoporre birrerie, locande e pub all’obbligo di licenza. Ovviamente, la misura trova l’opposizione dei locandieri e dei produttori di birra (i quali, ormai un’industria, spesso investivano i loro profitti in locali che poi affittavano, appunto, come birrerie ai gestori). In un anno aprono 24 mila negozi che vendono birra e, mentre il consumo di quest’ultima ne risulta incentivato, non cala la domanda per gli spiriti. Il vento cambia rapidamente e le regole abbandonate vengono reintrodotte. Questa serie di stop and go finisce per alimentare il movimento proibizionista, che però può decollare solo quando l’economia si è ormai industrializzata: cioè quando uno stato di ubriachezza continuata viene visto come pericoloso non solo per la pace sociale ma anche per la produttività.
Siccome il suo lavoro insiste sulla costante politicizzazione del consumo di alcolici, Nichols tende a prendere un po’ sotto gamba le belle pagine che al tema (e soprattutto all’economia della birra) dedica Adam Smith. In particolare, tende (un uomo di buone letture non può fare altrimenti) a sminuire la fiducia di quest’ultimo in un meccanismo di aggiustamento automatico della società, anche rispetto al consumo eccessivo e “smodato” di alcool. In realtà, proprio la storia che racconta Nicholls suggerisce che per ridurre il numero degli ubriachi conta più la disponibilità di bevande alternative (come tè e caffè) e la migliore qualità dell’acqua di qualsiasi misura legislativa.
Visto da dove siamo partiti, questa breve (e sommaria) recensione di un libro interessante, non può che finire con una citazione dalla Ricchezza delle nazioni.
Se i dazi sui vini esteri e l’accisa sul malto e sulla birra chiara e scura fossero aboliti d’un tratto, alla stessa maniera potrebbe aversi in Inghilterra una ubriachezza piuttosto generale e temporanea tra i ceti medi e inferiori, la quale sarebbe probabilmente presto seguita da una permanente e quasi generale sobrietà. Attualmente l'ubriachezza non è affatto il vizio degli uomini di mondo o di coloro che possono facilmente concedersi le bevande più costose. Raramente s’è visto da noi un gentiluomo ubriaco di birra. Inoltre, le limitazioni al commercio del vino in Gran Bretagna non sembrano tanto calcolate in modo da impedire alla gente di andare alla birreria, quanto di andare dove essa può acquistare bevande migliori e più a buon mercato. Esse favoriscono il commercio del vino portoghese e scoraggiano quello del vino francese. Si dice invero che i portoghesi siano migliori clienti delle nostre manifatture dei francesi, e quindi dovrebbero essere preferiti a questi. Poiché essi favoriscono le nostre merci, si argomenta, noi dovremmo favorire le loro. In questo modo le basse arti di trafficanti meschini sono erette a massime politiche per la condotta di un grande impero; perché sono soltanto i trafficanti più meschini che si fanno una regola di servirsi soprattutto dai propri clienti. Un grande commerciante acquista sempre le sue merci dove esse sono migliori e meno care, senza riguardo ai meschini interessi di questa specie.
Amen.
James Nicholls, The Politics of Alcohol: A History of the Drink Question in England, Manchester, Manchester University Press, 2011, pp. 288.