Señorita Reagan
C’è un che di neppure troppo sottilmente contraddittorio nel rapporto che quanti credono nel libero mercato e nella società aperta hanno con lo stesso concetto di leadership. Alla fine, la disponibilità a difendere l’uno e l’altra si basa sulla convinzione che non ci siano “capi” o “profeti” che debbano disegnare il futuro di noi tutti. Che le decisioni circa cosa, come e quando dev’essere prodotto sia meglio lasciarle a imprenditori che tentano di intuire le preferenze dei consumatori. Che la politica debba essere un’impresa modesta, l’amministrazione di quelle poche faccende che è bene gestire in comune.
E’ una prospettiva che di rado viene abbracciata con entusiasmo da un capo politico.
Il buon liberal-liberista vi dirà che non c’è nulla di cui stupirsi. La politica contemporanea si regge su una serie di incentivi che premiano proprio quei gruppi che al contrario “chiedono di fare qualcosa” al decisore di turno e sono disposti a retribuirlo col proprio consenso. La comunicazione politica, specie in tempi di grande incertezza e crescenti paure diffuse, richiede una linea assertiva, la disponibilità a prendere impegni i più vasti, il gusto di ripetere che “lo Stato c’è, costi quel che costi”, whatever it takes. Il leader in politica è il primo follower di atteggiamenti e domande diffuse nell’opinione pubblica. E tuttavia la politica di leader non può fare a meno. Le persone seguono altre persone, non idee astratte e misurano la credibilità di queste ultime sullo spessore, umano prima che intellettuale, delle prime.
Quelle poche volte che, nella sfera pubblica, prevalgono approcci liberali, pur con mille difficoltà a cominciare da quella, ineliminabile, di mediare fra il mondo delle proposte e dei propositi e le complesse realtà di corpi burocratici sempre più complessi e famelici, è perché emergono leadership “eccentriche” ma anche fortissime. I nomi più noti sono quelli di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. E’ vero, come ha scritto di recente l’Economist, che pure loro sono riusciti al massimo a rallentare la crescita di spesa pubblica e tassazione e non a invertire la tendenza. Ma il loro impatto simbolico è stato fortissimo: nei rispettivi Paesi ma anche in quelli privi di leader simili e che pure in qualche modo hanno dovuto fare i conti con le istanze che essi rappresentavano e con le questioni che ponevano. Se Mitterrand a un certo punto fermò la nazionalizzazione delle banche francesi e se in Italia negli anni Novanta abbiamo privatizzato quanto la signora Thatcher (per quanto senza crederci e anzi vergognandocene), è proprio per l’esempio dell’ Inghilterra e degli Stati Uniti negli anni Ottanta.
Anche per questo, siamo abituati a guardare da quelle parti, sperando o immaginando che un nuovo Reagan, o una nuova Thatcher, verranno di lì, che anzi magari esistano già, si stiano cimentando con la politica locale e siano pronti al grande balzo sulla scena nazionale prima e globale poi.
E’ da molto che aspettiamo e finora più che altro abbiamo preso qualche granchio. Se ha senso l’idea di aspettarsi che una leadership liberale venga dai Paesi nei quali quella cultura politica è più forte, purtroppo i leader non si coltivano in serra. Il genere di determinazione che serve per impegnarsi nell’agone pubblico e per cambiare in modo radicale lo status quo viene da caratteristiche individuali che non possono essere insegnate in una Summer School. Più che una teoria della libertà, richiede un sentimento della libertà - e un’individualità spiccata.
Henry Olsen, uno dei pochi columnist conservatori del Washington Post, è andato a incontrare Isabel Díaz Ayuso, che a settembre ha ricevuto il Premio Bruno Leoni 2021. Premio che le abbiamo attribuito perché aveva saputo mettere in atto un “mix di politiche che, mentre costruivano un approccio proattivo alla pandemia e al contenimento del virus (test a tappeto, aumento dell'offerta di posti letto e terapie intensive, lockdown mirati e limitati ai singoli focolai), avevano l'obiettivo dichiarato di mantenere quanto più possibile aperta la società madrilena”. Ayuso non è stata con le mani in mano, aspettando che il Covid passasse. Nemmeno ha negato la serietà del problema, o che i contagi potessero mandare in tilt il sistema sanitario. Ma anziché usare la pandemia per chiedere ai cittadini “sacrifici”, e il sacrificio ultimo della loro vita e della loro socialità attraverso il lockdown, ha fatto di tutto per preservare quanto più possibile, in queste nuove circostanze, la normalità della vita delle persone.
Scrive Olsen:
It was easy to see her appeal in a recent interview at her government offices. Ayuso is decisive and fluent in the details of government. More important, she speaks passionately about her devotion to liberty. “I believe in freedom,” she says. “I believe in the person, in the individual.” She is also thoroughly modern; a nonreligious, nightlife-loving woman who sports a Depeche Mode tattoo on her forearm. Many young American conservatives yearn for a smart, serious and principled leader like her.
(…)
She is continuing to press the freedom agenda, using her next budget to eliminate Madrid’s last regionally imposed income taxes. But she’s no libertarian, despite what her rhetoric might imply. She noted in our interview that “American and Spanish politics are very different. I would be between the Democrats and Republicans” if she were in America. So it’s no surprise that she argues her tax cuts will help maintain social welfare spending. “Higher taxes make it more difficult to maintain public services,” she says, “because fewer people pay taxes.”
The freedom agenda also applies to future efforts to mitigate the pandemic. “I am in favor of vaccines,” she says. “I don’t favor vaccine mandates.” Instead, she is prioritizing booster shots for the elderly and others at risk and working to persuade the unvaccinated to get vaccinated. She’s also opposed to vaccine passports, noting that “it is very easy to make a fake passport.” She wants to encourage residents to do the right thing rather than use the heavy hand of the state to force them to.
If this sounds familiar to American ears, it should. When asked who most influenced her thinking, she quickly says “Ronald Reagan.” “His speeches are amazing,” she gushes. Her mix of ideals and pragmatism, of freedom and social obligation, is very true to her idol.
In molti in questi mesi, soprattutto in Spagna, hanno giocato a contrapporre Ayuso e il leader del suo Partito, Pablo Casado, impensierito dalla sua popolarità. Da parte sua, Ayuso ha più volte assicurato che la sua prospettiva politica coincide con il governo della regione di Madrid, che vuole una carriera politica “intensa, non lunga” e di non immaginarsi nemmeno, un giorno, primo ministro.
Il punto però non è tanto quanto lontano, nel senso: da Puerta del Sol, andrà Ayuso. Il punto invece è che Ayuso ha dimostrato che, persino in una circostanza così complessa e difficile come quella in cui ci troviamo, le risposte autoritarie non sono le uniche praticabili: nemmeno in un Paese dove la cultura politica liberale è fragile, come la Spagna.
L’articolo di Olsen comincia così:
Free-market conservatives have been looking for a hero in this populist, Trumpian age. They might just have one in the president of the Madrid region, Isabel Díaz Ayuso.
Beati i movimenti politico-intellettuali che non hanno bisogno di eroi, direte voi. Ma tutti i movimenti politico-intellettuali hanno bisogno di eroi, altrimenti non sono movimenti ma biblioteche o collezioni di seminari. Le prospettive della libertà individuale non sono molto luminose, nel mondo di oggi. Godiamoci questo raggio di luce che viene da Madrid.