Se la battaglia per il Quirinale diventa un massacro
Da mesi la politica italiana gira attorno all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. Il perché si capisce. Il capo dello Stato dorme vegliato dai corazzieri, rimane in carica sette anni, guarda negli occhi i grandi della terra, nel perimetro della politica italiana ha poteri non solo notarili e, se ha mestiere, può mischiare il mazzo delle carte dei governi, come hanno fatto (o meglio, come hanno dovuto fare, costretti dalla pochezza dei loro interlocutori) Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella. Tutti i leader italiani aspirano, oggi o domani, al colle più alto: rappresenta il potere in tutto il suo splendore più simbolico e ornamentale, senza le responsabilità e le seccature che un ruolo “esecutivo” come quello di primo ministro porta con sé.
In campo c’è un’opzione che per il Paese presenta ovvi vantaggi: cioè l’elezione di Mario Draghi alla Presidenza. Proprio perché sarebbe la seconda volta di un ex governatore della Banca d’Italia varrebbe la pena adottare il metodo della prima: Carlo Azeglio Ciampi venne eletto alla prima votazione, grazie a un ampio accordo che permise di non badare nemmeno ai “franchi tiratori”. Draghi dovrebbe, ovviamente, lasciare il governo e questo forse renderebbe più probabili le elezioni anticipate. Dico forse, perché la maggioranza, scegliendo lui per il Colle, terrebbe e quindi potrebbe pure decidere di fare un altro tratto di strada assieme. Draghi dovrebbe piacere a Meloni e Salvini per un motivo semplicissimo: dal Quirinale egli sarebbe di fatto una specie di “super Ministro degli Esteri”, capace di dialogare con naturalezza con gli altri leader europei e quindi di fare mandar giù all’Europa, se necessario, anche un premier “sovranista” (che resta l’esito più probabile delle prossime elezioni). La sinistra dovrebbe accorgersi, come ha scritto Emanuele Felice sul Foglio, che l’alternativa a Draghi è un “presidente espressione del centro-destra” e quindi mandar giù il boccone. In realtà, un centro-sinistra elettoralmente vittorioso avrà altrettanto bisogno di un “garante europeo” quanto l’avrebbe il centro-destra dal momento che è improbabile che dall’alleanza fra Cinque Stelle e PD escano idee meno avventurose sotto il profilo della finanza pubblica di quelle care a Meloni e Salvini.
L’opzione Draghi per ora ha suscitato un fuoco di sbarramento, principalmente perché quelli a cui conviene (i “sovranisti”) non possono ammettere le ragioni per cui sperano di trarne vantaggio (avere un pompiere a disposizione in caso scoppi un incendio con l’Europa). Inoltre, nulla rivela il fallimento cultural-politico di trent’anni di centro-destra in Italia quanto il fatto, desolante, che fra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia non salta fuori il nome di una figura rispettata e dal solido profilo istituzionale. “C'è una grande confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente”. E’ questo il contesto nel quale Silvio Berlusconi è riuscito, con l’ennesimo, inaspettato miracolo, a trasformare la sua candidatura da provocazione culturale che era in una “cosa”, ben pensata e ben calibrata. Come funzionerebbe, lo ha spiegato benissimo Ugo Magri sull’Huffington Post: il Cav aspetterebbe il quarto scrutinio per entrare in gioco, senza farsi bruciare come candidato di bandiera.
Questa la previsione di Magri:
Prima conseguenza: Berlusconi ostacolerà qualunque larga intesa con la stessa grinta del cane dell’ortolano, che non mangia l’insalata ma non la lascia gustare agli altri. Marcherà stretto Salvini & Meloni, sapendo che loro preferirebbero di gran lunga qualcuno come Draghi, capace di portarli al voto tenendo buoni i mercati, i creditori e lo spread mentre con Silvio presidente succederebbe la qualsiasi, al di là di ogni immaginazione. Secondo effetto: fino a quando lui non si sarà rassegnato, è escluso che Draghi possa farsi acclamare come era accaduto a qualche predecessore (l’ultimo fu Carlo Azeglio Ciampi).
Perfino se Meloni e Salvini rompessero il patto col Cavaliere, Super Mario non avrebbe la certezza di raggiungere i 674 voti inizialmente richiesti. Rischierebbe (politicamente) l’osso del collo. Potrebbe ragionevolmente provarci dalla quinta votazione in poi. Però a quel punto (ultima conseguenza della legittima ambizione berlusconiana) il clima politico si sarà guastato tra scontri frontali, accuse di compravendite e sospetti di doppiogioco. Altri candidati scenderanno in pista contando sul quorum abbassato, per non dire di tutti i “peones” i quali, sinistra compresa, tifano Cav sperando che faccia fuori Draghi per poi liquidare anche lui. Previsione finale, speriamo sbagliata: Silvio se ne tornerà ad Arcore con la coda tra le gambe, ma lasciandosi alle spalle macerie fumanti; riallacciare i fili delle larghe intese sarà mille volte più complicato; francamente non se ne sentiva il bisogno.
Le previsioni per l’elezione del Presidente sono sempre difficili ma Magri sottolinea qualcosa che molti fingono di non vedere. Se le votazioni si protraggono, esaurendosi in uno scontro fra candidati di bandiera, per arrivare poi a una soluzione, magari inaspettata, ma esito di una maggioranza diversa da quella di governo, il governo Draghi non “dura” comunque. Non durerebbe perché le divisioni sarebbero troppo profonde: laceranti nel caso la spuntasse Berlusconi (la sinistra inscenerebbe proteste permanenti, Grillo uscirebbe dal freezer, i Cinque Stelle si debattistizzerebbero velocemente) ma insanabili anche nel caso uno dei giocatori lasciasse agli altri l’impressione di averli “fregati” nella battaglia per tutti loro più importante.
Chi non vuole Draghi al Quirinale si giustifica dicendo che è troppo importante tenerlo a Palazzo Chigi. In realtà, come dimostra questa legge di bilancio (lo abbiamo scritto non solo noi dell’Istituto Bruno Leoni ma anche Alessandro Penati su Domani), il premier già oggi è più ostaggio dei partiti di quanto non lo fosse qualche mese fa, figurarsi cosa accadrà quando mancheranno pochi mesi alle elezioni. Per dire: la legge sulla concorrenza verrà votata dal Parlamento ad andar bene a maggio 2022, resteranno sei mesi per mettere mano alla delega per il trasporto pubblico non di linea, qualcuno crede davvero che i partiti sceglieranno la vita della “impopolarità condivisa” per decidere assieme del futuro di taxi, NCC, Uber? Chi spera che Draghi “resti a Palazzo Chigi per finire il lavoro” lo dice o perché ha in mente un altro candidato per il Quirinale oppure perché vuole comprare tempo: comprar tempo per mettere assieme il suo “campo largo” (come il PD) o per provare a costruire un partito centrista che non vada sui giornali solo per le liti fra Renzi e Calenda (come gli amici de Linkiesta e qualche altro).
Per carità, non c’è nulla di male a comprar tempo (una seconda legge di bilancio del governo Draghi assicurerebbe sicuramente al Paese di continuare a galleggiare) ma il guaio è che non c’è nessun segnale che lasci sperare che l’Italia possa uscire da questa fase di “decantazione” con una offerta politica diversa. Draghi al Quirinale continuerebbe a essere quello che già oggi è: un volto che rassicura l’Europa e il mondo sul futuro del nostro Paese.
In un caso e nell’altro, c’è un che di fastidiosamente cinico nel fatto che tutta una classe politica senta il bisogno di affidarsi alla reputazione di un singolo uomo. Badate bene: non alle sue idee, non alle sue capacità, ma alla sua reputazione. Dice qualcosa, più che altro, della reputazione degli altri.