Romanzo Quirinale, ultimo capitolo?
Non ricordo che si sia mai parlato tanto dell’elezione del Presidente della Repubblica come in questi mesi.
Nel 1999 i radicali, dopo l’esito lusinghiero fatto registrare alle elezioni europee, cercarono di costruirci sopra la campagna “Emma for President”. Grande successo mediatico, ma poi il Parlamento scelse, al primo scrutinio, Carlo Azeglio Ciampi. Quello era il tentativo di un piccolo partito, uno dei pochi tabernacoli di cultura politica rimasti nella seconda Repubblica, di affermare la sua storia e il rilievo delle sue personalità portando “in piazza”, fra la gente, l’elezione più esoterica che ci sia. Fino a ora, perlomeno, non ne erano seguiti altri: quando Giorgio Napolitano venne eletto la prima volta, aveva dei contendenti (Giuliamo Amato e, anche se oggi sembra impossibile, Massimo D’Alema) e tuttavia la faccenda riguardava solo i palazzi della politica, che se la sbrigarono come meglio poterono. Alla sua rielezione si arriva dopo le candidature fallite di Franco Marini e Romano Prodi: entrambi vennero impallinati da “franchi tiratori” del loro partito ma nessuno dei due si era candidato davanti al Paese, innanzi alle telecamere. Di Sergio Mattarella come nuovo Presidente si sussurrava da mesi, l’interesse dei media per la questione era dato soprattutto dal “patto del Nazzareno”. L’insistenza di Renzi sul suo nome, il più gradito al PD, avrebbe messo alla prova l’accordo con Berlusconi: che infatti andò in frantumi.
Sono mesi che ci interroghiamo su chi sarà il prossimo inquilino del Colle - e non perché ci sia abbondanza di candidati. Il nocciolo della questione è se Mario Draghi concluderà o meno la sua lunga carriera da Capo di Stato: materia che è diventata d’interesse nazionale perché la percezione diffusa è che il Paese e la politica siano talmente fragili da sperare di passare la nottata solo se al Colle ci sarà un garante gradito ai partner europei. Che sia un uomo solo possa “garantire” per l’intero sbrindellato apparato pubblico italiano, e per il nostro mostruoso debito, è forse una lettura un po’ fumettistica della politica e del mondo, ma tant’è.
In questi mesi è successo anche qualcos’altro. Il sistema elettorale italiano, è noto, cambia dopo il referendum del 1992 e con la legge elettorale detta”Mattarellum”, che, pur con un tocco di proporzionale, ci porta ad avere sistemi uninominali e una competizione sostanzialmente bipolare. Varrebbe la pena chiedersi chissà quanto e come quel cambiamento avrebbe attecchito, se nel 1994 non fosse “sceso in campo” Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, sin da principio, spaccò in due il Paese, chi l’amava alla follia e chi l’odiava fino alla morte. Una competizione così aspra porta con sé molti problemi, a cominciare dalla delegittimazione reciproca che tutt’oggi segna il dibattito pubblico. La politica però è ormai, ovunque nel mondo, una forma di entertainment e non può prescindere da leadership forti e visibili.
Berlusconi mise nei simboli dei partiti che lo sostenevano “Berlusconi Presidente”. Polarizzava la discussione politica ma vi aggiungeva pure un elemento di responsabilità. Per la prima volta, gli italiani votavano non solo per qualcuno che li rappresentasse ma anche per la persona che ambiva a governarli. In una Repubblica parlamentare, le maggioranza si fanno in Parlamento e in Italia la Costituzione non è mai cambiata: ce ne siamo accorti in questa legislatura. Tuttavia, per il periodo nel quale Berlusconi è stato al centro della scena, nei fatti qualcosa era cambiato sì: e noi abbiamo votato chi lui, chi Occhetto, Prodi, Rutelli e poi di nuovo Prodi, nella ragionevole sicurezza che poi il vincitore sarebbe finito a Palazzo Chigi.
Candidandosi stavolta a Presidente della Repubblica davanti non al Parlamento ma al Paese, Berlusconi ha fatto qualcosa di simile. Ha sottratto il Quirinale alle contrattazioni segrete fra i capi partito e l’ha gettato innanzi alle telecamere. Ha reclamato il Colle non sulla base di un’alchimia parlamentare (quella, che è ciò che davvero servirebbe, probabilmente non ce l’avrà) ma in nome della storia sua e di quella della sua coalizione. Il candidato per certi versi da lui più diverso, cioè Mario Draghi, è stato costretto a fare la stessa cosa e, nella conferenza stampa di fine anno, ha in buona sostanza palesato le proprie ambizioni.
Se i nostri politici facessero politica, sarebbe un’occasione per ragionare sulla funzione di un’istituzione, la Presidenza della Repubblica e sulla sua possibile riforma. Di “presidenzialismo” parliamo da vent’anni, a destra ma anche a sinistra.
E’ la direzione giusta? Il nostro Presidente della Repubblica è, agli occhi di molti, una sorta di monarca elettivo e dovrebbe giocare il ruolo del sovrano costituzionale. “La più grande saggezza di un Re costituzionale”, scriveva Walter Bagehot, “si manifesta in una ben calcolata inazione”. La funzione essenziale del monarca nella Costruzione inglese è cerimoniale e simbolica:
La monarchia dev’essere anzitutto oggetto di reverenza (….) Il suo mistero è la sua vita. Non dobbiamo fare piena luce su ciò che è magico. Non dobbiamo fare entrare la Regina nella lotta politica. Se ciò avvenisse cesserà di essere riverita da tutti i combattenti, diventando solo uno dei tanti contendenti.
E’ indubbiamente importante, nelle monarchie costituzionali, che ci sia un potere che resti fuori dalla scontro politico. La pietra angolare della stessa legittimità del sistema viene così preservata dalla guerra fra le fazioni e, in qualche modo, ricorda, col solo fatto di esistere, che non tutto è politica, non tutto è oggetto della mera conta dei voti, del gioco delle maggioranze e delle minoranze.
E’ questa la funzione del Presidente della Repubblica? E’ indubbio che in qualche modo il Presidente, una volta che diventa tale, si “istituzionalizza”, esce dal gioco. La destra in parte ha votato la rielezione di Napolitano, pur imputandogli la fine del governo Berlusconi. E oggi a Mattarella arrivano attestati di stima bipartisan, nonostante la Lega non abbia certo ragioni per essergli grata e Berlusconi lo ricordi come uno dei ministri che si dimisero in polemica con la legge Mammì.
Nello stesso tempo, però, il Presidente italiano non è la Regina d’Inghilterra e non lo è un po’ perché i suoi poteri sono aumentati negli ultimi anni, per esempio con la riforma dell’articolo 81 della Costituzione; ma soprattutto perché il sistema dei partiti ha fatto sì che il suo ruolo cambiasse nel tempo. Sappiamo, dagli ultimi vent’anni, che il sistema politico italiano ogni tanto si blocca: che i partiti eletti dagli italiani non riescono a trovare una quadra per formare una maggioranza, che le pressioni della politica internazionale o della finanza pubblica li mettono in una posizione difficile, che il ceto politico spesso non riesce a esprimere di per sé personalità all’altezza delle sfide che lo sovrastano. Se il Presidente è un arbitro, è sempre più un arbitro che decide le stesse dimensioni del campo di gioco. Difficile dire che non faccia politica: che costruisca un governo per far fronte alla crisi del debito o che seduca Mario Draghi per ricostruire credibilità innanzi alle, pur generose, istituzioni europee.
In questo contesto, non sarebbe sbagliato che il Presidente fosse “responsabilizzato” dal voto popolare. Con quali meccanismi (un turno, due turni, sbarramento, possibilità di presentare candidature al di fuori dei partiti, eccetera), è tutto da vedere. Quella sul senso della presidenza sarebbe una discussione più interessante che fissarsi sul destino di una singola persona.