Si fa un gran parlare in questi giorni di Roger Scruton, inserito da Giorgia Meloni nel suo pantheon intellettuale, assieme peraltro a Montesquieu e Giovanni Paolo II. Scruton, date un’occhiata alla bibliografia alla fine della sua voce su Wikipedia, è stato un autore strepitosamente prolifico. Si è occupato di un sacco di cose, non solo del senso dell’essere conservatori. Ha scritto, per dire, anche di musica. Come tutti gli autori prolifici, non sempre è stato perfettamente coerente. Come filosofo della politica, è difficile dire che sia stato tremendamente originale. Popolare senz’altro: anche perché dotato di uno stile brillante, studiatamente accessibile. Meloni lo ha citato per il suo “ambientalismo” conservatore e forse anche perché, fra i conservatori anglosassoni, era il più attento ai valori e alle sensibilità comunitarie, tipiche invece della destra continentale. Forse proprio la sua sensibilità estetica era ciò che caratterizzava il suo conservatorismo, inteso come partnership fra passato e futuro anche rispetto alla preservazione di una tradizione (di un canone?) di bellezza e significato.
Critico (dai tempi in cui dirigeva la Salisbury Review) degli accenti più liberisti del thatcherismo, Scruton nondimeno era anch’egli un thatcheriano. La sua antipatia nei confronti dell’economia di mercato è assai relativa: si inserisce nel solco di una tradizione che comunque ne riconosce i meriti.
Come molti autori profilici, Scruton dava il suo meglio nella polemica e, almeno secondo chi scrive, il suo libro migliore resta questo Fools, Frauds and Firebrands: Thinkers of the New Left, pubblicato nel 1985 e poi rivisto nel 2017. I “protagonisti” sono intellettuali della allora “nuova sinistra” molto diversi: Eric Hobsbawm e E.P. Thompson, John Kenneth Galbarith e Ronald Dworkin, ma anche Antonio Gramsci ed Edward Said. E’ un libro colto e pieno di idee, distillate in ritratti al vetriolo (con qualche eccezione: come chiunque lo abbia letto, Scruton fatica a non ammirare certi aspetti del lavoro di E.P. Thompson) ma impeccabili per coerenza e rigore.
Scruton tira di sciabola con alcune idee che sono ormai luoghi comuni della sinistra: la trasfigurazione rivoluzionaria del movimento operaio, che cela molto spesso le istanze concrete che invece i sindacati perseguivano, con negoziazioni tutte interne al perimetro dell’economia capitalistica. Oppure lo snobismo intellettuale travestito da denuncia del consumismo. Oppure ancora la banalizzazione della violenza rivoluzionaria, con la conseguente sottovalutazione degli esiti della Rivoluzione francese come della Rivoluzione d’ottobre, da parte di autori quali Slavoj Zizek.
Nell’ultimo capitolo, Scruton si chiede “What is Right?”. Egli sottolinea come a unire i pensatori che si autodefiniscono come “di sinistra” è soprattutto l’odio per l’avversario: “una volta identificati come di destra, siete al di là di ogni discussione; le vostre opinioni sono irrilevanti, il vostro carattere screditato, la vostra presenza nel mondo un errore. Non siete un avversario con cui discutere, ma una malattia da cui rifuggire”. Proprio questo settarismo, secondo il filosofo britannico, dovrebbe obbligare “la sinistra” ad avere una visione alternativa forte e ben definita. Invece quegli autori utilizzano termini (pensiamo solo a “giustizia sociale”) che vengono “raramente sottratti al regno dell’astrazione” e che
non sono, di norma, utilizzati per descrivere un ordine sociale immaginario che i loro sostenitori siano pronti a giustificare. Al contrario, essi ricevono un'applicazione puramente negativa. Vengono usati per condannare ogni istituzione mediatrice, ogni associazione imperfetta, ogni imperfetto tentativo che gli esseri umani possono aver fatto di vivere insieme senza violenza e nel rispetto della legge. È come se l'ideale astratto fosse stato scelto apposta perché nulla potesse effettivamente incarnarlo. (…) In un momento di dubbio sulla storia del socialismo, Eric Hobsbawm scrisse: "Se la sinistra deve ragionare più seriamente alla nuova società, ciò non la rende meno desiderabile o necessaria, né l’argomento contro quella attuale è per questo meno convincente". Ecco, in poche parole, la sintesi dell'impegno della Nuova Sinistra. Non sappiamo nulla del futuro socialista, se non che è necessario e desiderabile.
Sotto la critica al capitalismo, insomma, niente. E lo stesso uso di quest’ismo è spesso una forma di neolingua truffaldina. Anziché parlare di capitalismo, suggerisce Scruton, proviamo a descriverlo:
Nelle nostre società le persone sono proprietarie delle loro cose, compreso il loro lavoro, e possono scambiarle liberamente con altri. Possono comprare, vendere, accumulare, risparmiare, condividere e donare. Possono godere di tutto ciò che il loro lavoro liberamente esercitato può garantire loro e persino, se scelgono, non fare nulla e sopravvivere. Si può eliminare la libertà di comprare e vendere; si possono obbligare le persone a lavorare a condizioni che non accetterebbero liberamente; si può confiscare la proprietà o proibire questa o quella forma di proprietà. Ma se queste sono le alternative al capitalismo, ora non c'è un'alternativa reale se non la schiavitù.
Scritto ben prima che divampassero le “guerre culturali” che oggi segnano la politica in tutto l’Occidente, questo libro è tutt’oggi una eccellente guida per misurare la distanza che separa “nuova sinistra” e buon senso.
Roger Scruton, Fools, Frauds and Firebrands: Thinkers of the New Left (1985), Londra, Bloomsbury, 2017, pp. 304.