Professore di economia politica al King’s College di Londra, Paul Lewis era uno studioso curioso e una gran brava persona, disponibile e attenta, serenamente incapace di prendersi troppo sul serio. Scrivo “era” perché Paul è morto questa settimana, in conseguenza di un attacco di cuore che l’aveva colpito una quindicina di giorni orsono. Capitava di incontrarsi a una conferenza qui o a una conferenza là e ritrovarlo fra i partecipanti aveva un doppio vantaggio. Sapevo che avrei imparato qualcosa e che avrei apprezzato non solo l’acume ma anche il garbo dei suoi interventi, o le battute a margine di una birra a convegno concluso.
Un paio di anni fa Paul aveva curato questo volume, il diciottesimo, dei Collected Works di Friedrich von Hayek, uscito poi l’anno scorso in brossura. Il titolo è Essays on Liberalism and the Economy, necessariamente vago alla luce dell’eterogeneità dei contributi. L’edizione dei lavori completi di Hayek scompagina la suddivisione in volume dei suoi saggi che abbiamo imparato a conoscere anche nell’edizione italiana (Studi, Nuovi studi, etc) ma ha il grande vantaggio di farci scoprire contributi rimasti all’ombra delle opere maggiori.
La silloge contiene testi che attraversano l’intera carriera dell’economista austriaco: “il primo per data di pubblicazione risale al 1931, l’ultimo al 1934”. Sono lavori “scritti per una gran varietà di scopi e di pubblici”. Fra di essi, vi è anche una serie di “lettere al direttore” che Hayek, spiega Lewis, avrebbe voluto riunire in volume per l’Institute of Economic Affairs di Londra: progetto mai realizzatosi.
Questo volume si apre con la voce “Liberalismo” che Hayek scrisse per la Treccani e che è più nota al lettore italiano (anche perché è stata ripubblicata come volumetto a sé stante sia da IdeAzione negli anni Novanta che più recentemente da Rubbettino) di quanto non lo sia ai lettori anglosassoni. In quel lavoro, Hayek racconta il liberalismo come una dottrina politica che rassetta e sistema una serie di intuizioni e pratiche precedenti, fortemente debitore di “idee attinte dall'antichità classica e di alcune tradizioni medievali che in Inghilterra l'ascesa dell'assolutismo non aveva cancellato”. La formulazione dell’idea liberale di libertà, nel senso di “protezione da parte del diritto contro ogni coercizione arbitraria”, trova una prima espressione compiuta in John Locke ma in qualche modo - Hayek ci tiene a sottolinearlo - non è il parto di questo o quel pensatore. I teorici liberali hanno una funzione più modesta. Per esempio, la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith ebbe quella di dimostrare agli inglesi che le “restrizioni ai poteri del governo, originate esclusivamente dalla diffidenza nei confronti di ogni autorità arbitraria, erano divenute la causa principale della prosperità economica britannica”.
Il fatto che il liberalismo stesso non sia il frutto di un progetto determinato, che esista in un’architettura di norme e consuetudini ben prima che qualcuno provi a stilarne il “manifesto”, conferma Hayek nella sua intuizione di fondo su qual è il tratto saliente delle dottrine liberali. Cioè, per dirla nel modo più piatto possibile, la consapevolezza che il mondo è troppo complesso per provare a sistemarlo con un tratto di penna. Che i tentativi di ricondurlo a un ordine apparentemente geometrico, ma posticcio, sono destinati a fallire, mentre quel poco e quel tanto di ordine che possiamo ritrovare nella realtà è il frutto del modo in cui gli attori sociali si organizzano da sé, per risolvere i propri problemi, senza necessariamente grandi idee su come debba funzionare la Società nel suo complesso. Di qui tutta una serie di conseguenze. Per esempio, i principi del diritto non debbono corrispondere “alla volontà di chi li promulgava” ma essere quanto più possibile “indipendenti” da essa. La legge ha un carattere formale e non strumentale: non obbedisce agli intendimenti immediati del legislatore. L’ordine giuridico dovrebbe funzionare come funziona una rotonda, con criteri di immissione che non dipendono dalla posizione specifica di una singola automobile né men che meno da chi la guida. Le opzioni teoriche alternative preferiscono mettere un pizzardone sul suo sgabello nel centro della piazza e lasciare a lui il compito di dirigere il traffico. Per Hayek l’ordine non solo può esistere in assenza di un “ordinatore”, ma al contrario quando si prova a mettere ordine in quello che agli ingegneri della società sembra un terribile caravanserraglio si finisce di solito per fare un gran casino.
Lewis riconosce che Hayek era “affezionato all’idea che durante quel lungo diciannovesimo secolo conclusosi con la prima guerra mondiale la Gran Bretagna fosse il Paese che più si era avvicinato a realizzare la visione liberale”. William Gladstone venne “ampiamente considerato una sorta di incarnazione dei principi liberali”. E tuttavia quando Hayek arrivò in Inghilterra, nei primi anni Trenta, le cose erano decisamente cambiate. In un certo senso, la rapidità e la profondità di questi cambiamenti determinarono la direzione dei suoi lavori di teoria politica e di storia delle idee.
Lewis indica alcune possibili spiegazioni offerte da Hayek per l’affermarsidi una “mentalità ingegneristica” nell’ambito del pensiero politico, persino nella culla delle idee liberali. La prima è legata al successo di un grande pensatore e intellettuale pubblico, John Stuart Mill, il quale “indirizzò la sua critica principalmente contro l'intolleranza ideologica piuttosto che contro l'esercizio del potere statale”. Una forte spinta nella medesima direzione venne “dall'influenza del filosofo Thomas Hill Green, il quale sottolineò le funzioni positive dello Stato contro la concezione prevalentemente negativa della libertà, propria dei vecchi liberali”. I “nuovi liberali” furono gli artefici (forse inconsapevoli) della “strana morte dell’Inghilterra liberale”, se non altro perché non si facevano problemi a offrire generose giustificazioni all’intervento pubblico.
Ma, scrive ancora Lewis, Hayek è più ambiguo di quanto appaia a detrattori e fan, ci sono forme di intervento statale che egli approva (anche se pone sempre un problema di “gradi”), e ogni tanto sembra convinto che uno dei problemi del “vecchio liberalismo” era l’eccessiva enfasi posta dai liberali ottocenteschi sul principio del laissez-faire, sulla “non-agenda” anziché sull’“agenda” dei governi. Noto en passant che Hayek era un uomo coltissimo, a suo agio con gli autori più diversi, ma che mentre conosceva benissimo le opere di Mill e si era confrontato perlomeno con l’eredità dei “nuovi liberali”, conosceva Spencer e Cobden, ovvero la tradizione del liberalismo ottocentesco che sarebbe più vicina alla sua, più o meno per sentito dire.
Il che se non altro ci aiuta a capire il racconto che Hayek fa del liberalismo. I suoi maggiori teorici, ai suoi occhi, sono settecenteschi (Hume e Smith sopra tutti). Il secolo nel quale la dottrina (settecentesca) si fa politica è il successivo, ma di liberali ottocenteschi non gliene piace nessuno, con l’eccezione di un proto-sociologo e di uno storico che si tengono a debita distanza dalla teoria politica, cioè Tocqueville e Acton. Poi arriva il Novecento, che pure per colpa degli sciagurati teorici ottocenteschi si rivela assai poco liberale. Nello scritto più recente incluso nel volume, un discorso tenuto al meeting della Mont Pelerin Society (l’associazione internazionale da lui fondata, tuttora in attività tant’è che fra poco si apre il suo convegno in Messico) nel 1984, Hayek racconta di come, quando era giovane, il liberalismo fosse solo una roba da vecchi:
C’era una totale assenza di liberali fra le persone giovani. Il liberalismo in senso classico era considerato qualcosa di antiquato e non più aggiornato. Ora ciò è completamente cambiato, e sono pronto a sostenere che, per quanto non abbiamo ancora esercitato grande influenza nella pratica delle politiche pubbliche, credo che abbiamo già dato un grande contributo a un cambiamento dell’opinione, specialmente fra i giovani. Cose che vent’anni fa sarebbero state inaccettabili fra i più giovani [e non lo sono più] mi confermano che queste idee sono influenti. Quando adesso mi chiedono se io sia ottimista sul futuro, io rispondo regolarmente che se i politici non riescono a distruggere il mondo nei prossimi quindici anni, allora ci sono davvero delle ottime speranze. Poiché c’è una nuova generazione che sta crescendo, la quale non solo ha riscoperto i vantaggi materiali della libertà, ma la giustificazione morale della filosofia della libertà.
Visto come siamo ridotti nel 2025, qualcosa dev’essere andato storto lungo la strada.
Ciò che è interessante è come la visione dei cambiamenti sociali dell’economista Hayek è quasi totalmente slegata dal gioco degli interessi. C’erano alcune questioni politiche concrete alle quali l’autore de La società libera prestava molta importanza: in particolare modo, l’inflazione, che egli denunciò più e più volte (ce n’è ampia testimonianza anche nei suoi interventi rivolti a un pubblico di non specialisti) come esito delle politiche keynesiane. Hayek era sicuramente attento al modo nel quale idee di carattere generale venivano “tradotte” a vantaggio della società tutta, per esempio dagli storici, dagli insegnanti di ogni ordine e grado, dalla cultura popolare. Eppure, fondamentalmente il cambiamento delle concezioni diffuse riflette, nella sua prospettiva, lo scontro di idee. Come il suo amico-nemico Keynes, anche Hayek tende a pensare che i politici si limitino a prendere le ordinazioni da qualche “scribacchino economico defunto” e a servire in tavola.
Il futuro Nobel riconosceva grande importanza a quelle situazioni (assai rare) nelle quali alcuni studiosi e magari un pensatore o due si ritrovano a insegnare nello stesso luogo e danno origine a una scuola. Quel poco e quel tanto del liberalismo sopravvissuto nelle scienze sociali d’inizio secolo veniva dalla Vienna dove c’era Mises, dalla London School of Economics dove Edwin Cannan esercitava una forte influenza, dalla Chicago di Frank Knight e dalla Friburgo dove si ritrovarono alcuni pensatori Ordo-liberali. Sono tutte città e università in cui Hayek finì per operare ed è veramente bello, nel volume curato da Lewis, un suo saggio-riflessione sull’esperienza universitaria. Parla di un’università che oggi non esiste più, ma anche in quella che ebbe modo di conoscere Hayek individua alcuni dei mali (per esempio il “divorzio” fra filosofia e scienze sociali) che ancora ci condizionano.
Non conoscevo una recensione che Lewis include nel volume e che rappresenta uno dei pochissimi casi in cui la prosa del pensatore austriaco mostra una vena di perfidia. Il libro di cui parla è Our Partnership di Beatrice Webb, l’“our” allude a lei e al marito Sidney, fondatori della Fabian Society e anche della London School of Economics. L’articolo è del 1948, quando Hayek stava spostandosi Oltreoceano. “Sarebbe difficile sovrastimare l’importanza di Our Partnership per comprendere la storia britannica nel ventesimo secolo”, esordisce, “inoltre, la vicenda dei Webb offre una lezione unica circa quanto possono realizzare la devozione e il lavoro metodico di due persone prive d’egoismo e totalmente dedicate”.
I Webb però avevano “scarsa fede nell’uomo comune” e nutrivano l’ambizione non di organizzare le persone non-pensanti in società socialiste bensì “di rendere le persone che pensano socialiste”. Di qui l’idea di formare i formatori dell’opinione pubblica, affinché “schiere di abili giovani uomini, ben istruiti nell’economia e nella storia dell’amministrazione d’impianto fabiano, possano affollarsi nell’arena politica”. Erano “maestri dell’intrigo” e soprattutto nell’arte di mobilitare i propri contatti a vantaggio dei loro obiettivi.
“E’ una curiosa ironia”, nota Hayek, “che le circostanze che diedero ai due il potere di dare un tale contribuito alla distruzione della civiltà capitalistica che tanto odiavano potessero esistere solo in seno a tale civiltà”. Beatrice era la figlia di Richard Potter, capitalista non dei minori dell’età vittoriana (fu, a un certo punto, il presidente della Great Western Railway), e godeva di una rendita di “mille sterline l’anno [all’incirca 150 mila sterline di oggi], che non solo consentiva ai due di dedicarsi totalmente agli obiettivi che si erano dati, ma che consentiva loro di impiegare tutte le arti dell’ospitalità e di mettere tutto il loro uso di mondo al servizio dei propri ideali”. I Webb vivevano “in quella famosa casa di dieci stanze a 41 Grosvenor Road, che occuperanno per quarant’anni e dove avevano due persone di servizio a tempo pieno, potendo così accomodare regolarmente dodici persone a cena”. Il mondo si cambia un ospite alla volta. Quando incontravano un interlocutore recalcitrante, lo seducevano “con una cena ben calibrata”. Uno se l’immagina: “il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone”, il servizio impeccabile delle cameriere, una bottiglia come si deve, la conversazione garbata ma incalzante. Si prendono più mosche con il miele.
Gli esiti furono cospicui: un netto spostamento a sinistra del Partito liberale, la nascita del Partito laburista, se vogliamo, dunque, anche il nuovo assetto su cui si accomodò, dagli anni Venti, la politica britannica.
Hayek tentò, con la Mont Pelerin Society e altre iniziative, di esercitare un’influenza simile e di segno contrario. Con assai meno uso di mondo e, dunque, risultati meno eclatanti.
F.A. Hayek, Essays on Liberalism and the Economy, a cura di Paul Lewis, Chicago, University of Chicago Press, 2022, pp. 630.