Solo gli stupidi non cambiano idea. Ma quando a cambiare idea sono persone tutt’altro che sciocche, e che magari appartengono ai ceti dirigenti o intellettuali, sarebbe opportuno che ne dessero notizia. Scusate, mi sono sbagliato. Non avevo capito. Mi ero accontentato d’informazioni superficiali. Era talmente bello stare con loro, sentirsi qualcuno insieme a tanti altri, che tenevo gli occhi chiusi sperando non finisse mai.
La caduta dei tiranni è un libro smilzo, che rielabora tre reportage di Alberto Arbasino usciti su La Repubblica: Berlino, Praga e Budapest, visitate subito dopo il crollo del muro (il libro è del 1990). L’autore è uno dei massimi letterati italiani del dopoguerra e perciò viene facile considerare questo un suo libro minore, che impallidisce di fianco al monumentale Fratelli d’Italia ma anche ai ritratti italiani, alle cronache dai festival di Bayreuth e Salisburgo, a Super Eliogabalo eccetera eccetera. In realtà questo saggio di Arbasino andrebbe letto, e forse sarebbe stato opportuno leggerlo all’epoca, perché si tratta di un formidabile j’accuse di un intellettuale italiano, immerso fino alla punta delle scarpe nelle tendenze del suo tempo (Arbasino veniva dal Gruppo ‘63) ma che non era mai stato comunista, agli intellettuali italiani.
Ma dove saranno finite le chiacchiere già così alla moda circa i «bisogni» della «gente», quando la gente e i bisogni non erano ancora venuti a noia per i loro comportamenti poco devoti alle prescrizioni e alle analisi… e le «iniquità» venivano «denunciate» preferibilmente ove non danno fastidio ai ‘nostri’, in località esotiche e ‘interessanti’ come la papaya e il mango, e non già realistiche e qua davanti come la patata, o la mancanza di patate, argomento al di sotto del «discorso» al convegno o alla presentazione del libro sulle prospettive della sinistra in Europa?
(…). Ma non vedevano proprio? Non capivano niente? Come si faceva a tornare tutti soddisfatti del «dibattito» da questi paesi europei un tempo simili a noi e non già all’Asia, con la stecca di sigarette-omaggio nel sacchetto e la bottiglia di J&B a mille lire per gli ospiti, noncuranti delle sofferenze e dei bisogni, e svolgendo addirittura distinzioni fra morti e morti che sarebbero state trovate indecenti perfino da Filomena Marturano? (…) E magari, continuando a straparlare astrattamente ancora adesso, tentando di «dare la linea» con la sufficienza della presunzione, come quando con l’intolleranza della saccenteria si ripeterà che «il paradiso è qui» senza vedere né provare «The Horror»: invece di venir qui a vedere, a toccare, a informarsi, a vergognarsi a pentirsi, o a ribellarsi, a piangere sul proprio passato o sulla propria mancanza di destino?
Arbasino reagisce al crollo del muro con entusiasmo: “i martelli hanno mandato a quel paese la falce complice della schiavitù sovietica, e si sono uniti al piccone e magari al grosso cacciavite quali strumenti di libertà nel più straordinario Fidelio che si possa vedere in Europa”. Oggetto del suo entusiasmo era un’esplosione di libertà che sembrava del tutto estranea a qualsiasi causa orchestrata da altri. I tedeschi che finalmente arrivano all’Ovest “fanno tanta impressione perché sono masse prive di maestri; apparentemente se ne infischiano di quei loro indottrinamenti ventennali o quarantennali anche televisivi, lunghissimi e noiosissimi (…) come avendo quella cosa ormai stranissima, accanto allo stomaco, un’anima non omogeneizzata?” Arbasino aveva gioco facile nel profetizzare che “i pensatori più elevati e remoti decideranno che si tratta di una sciagurata anima consumistica, automobilistica, elettrodomestica, frigorifera”.
Arbasino individua le difficoltà della transizione guardando al lavoro. “Ecco la mortificazione che assale: questa pessima qualità subentrata, a causa dell’incapacità o del ‘gusto’ del regime nei prodotti che prima si sapeva come fare ottimi”. Una considerazione che ricorda quelle di Eric Hoffer, sull’incapacità dei regimi comunisti di far lavorare la gente con un minimo di dedizione e d’orgoglio: ciò che appare quasi naturale nelle economie capitalistiche, ha del miracoloso nel paradiso del proletariato.
Queste pagine di Arbasino sono non solo bellissime da leggere, ma anche utili per ricordarsi dell’ipocrisia di tutta la nostra intellighenzia o quasi. La quale cambia le sue “cause” di riferimento ma conserva intatto il fervore con cui le sostiene. Pensiamo agli ultimi mesi e al piglio con cui la nostra intellighenzia ha imbracciato cause nuove, invocando fieramente l’ostracismo dei dissidenti e mettendosi, per esempio, in questi giorni, a parlare di questioni tecniche e complesse come quelle dell’energia e del gas con parole d’ordine che somigliano a quelle di sempre. Al bando gli speculatori!, che volete che sia.
Le masse prive di maestri restano, agli occhi dei nostri intellettuali, agglomerati di piccolo borghesi a vocazione “consumistica”, che devono essere inseriti in qualche piano regolatore del mondo, sotto questa o quella bandiera. Per apprezzare la libertà forse bisogna essere almeno vagamente consapevoli delle proprie contraddizioni, come l’Arbasino che racconta lo squallore delle ex economie pianificate avendo “in tasca i biglietti per Jessye Norman alla Philarmonie stasera”. Forse l’ipocrisia è necessaria per dormire la notte. E il fervore. Proprio il fervore più di tutto doveva e dovrebbe metterci sull’avviso. Le idee buone non hanno bisogno che si alzi la voce.
Alberto Arbasino, La caduta dei tiranni, Palermo, Sellerio, 1990, pp. 80.