Nel 1954 si tenne un convegno a San Pellegrino Terme i cui contorni sfumano nella leggenda. Alcuni padreterni della letteratura italiana si portavano appresso dei giovani, per promuoverli e sottoporli al giudizio degli altri padreterni presenti. Montale invitò Lucio Piccolo, e questi portò con sé il cugino, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che, visti da vicino questi giganti delle lettere, tornò a casa e mise mano al Gattopardo. Nella repubblica delle lettere, il più grande di tutti era un avventizio.
Anche altri presenti, però, non scherzavano.
A quel convegno Guido Piovene cercò di spingere il romanzo con cui, due anni prima, aveva esordito un venticinquenne Enzo Bettiza.
La campagna elettorale che dà il titolo al libro è quella del 1948. Un ispettore del Partito Comunista viene spedito nella sezione di una cittadina padana per liquidare il suo segretario. Quest’ultimo è un compagno d’esperienza, che le ha viste brutte, i galloni se li è conquistati sul campo ma finita la guerra di liberazione non riesce più a seguire le direttive del Partito.
Fin qui le apparenze per come sono state decrittate da chi con lui condivide il lavoro di sezione. C’è di mezzo una donna, la stanchezza, la grammatica borghese delle elezioni che fa a pugni coi ricordi degli anni eroici, che poi sono l’altroieri, il sangue, la guerra.
Fosse così semplice. In realtà il compagno Grumello sperimenta “il vuoto che stringe il vecchio comunista che si sente vuoto, finito”. Dopo anni passati a identificarsi completamente con la causa e il partito (“se in quel momento uno mi avesse detto che io ero io e il Partito il Partito, ti giuro che l’avrei sputato e deriso”), egli d’improvviso si sente “sdoppiato” e una parte di lui “quella che era il partito” gli è volata via dall’anima.
E l’ispettore? L’ispettore ha fatto la guerra di Spagna, è un compagno d’esperienza lui pure, però riesce ancora ad ascoltare rapito un comizio di Longo. In quel momento, “le cose, il mondo, come dire? acquistano di colpo una sola dimensione, e tante zone grigie, equivoche, confuse, ecco d’incanto non ci sono più”.
La politica in generale, anche la nostra, la politica quando viene ridotta al minimo, al crudo, è per eccellenza antimachiavellica: lo ripeto ch’è nuda e manca quanto, se non più, d’una sala operatoria. Entrare in sala, farsi raddrizzare le ossa, come adesso stava drizzando le mie quel perfetto discorso di Longo, è un’operazione che fa sempre bene.
E tuttavia anche le ossa del compagno ispettore devono essere rizzate, perché l’entusiasmo per operazioni chirurgiche d’altro genere, per le epurazioni che sono state il suo pane quotidiano dalla Spagna in qui, porta con sé vecchi ricordi, pronti a ridestarsi quando l’incontro con un giornalista triestino rievoca il volto di un vecchio compagno croato…
Per metà il libro di Bettiza sembra un Don Camillo visto dalla parte di Peppone, un insieme di gustose vignette da sezione di partito. Per l’altra metà è un’immersione nell’abisso in cui precipita, persa la fede, un “vero credente”. Che dopo anni e anni di militanza teme, nel cercare se stesso, di non trovare più nessuno. Enzo Bettiza è stato non solo un protagonista della vita civile italiana, ma un grande scrittore mitteleuropeo, un “romanziere manniano del lunghissimo Novecento” come scrisse, nello splendido ultimo saluto che gli rivolse, Giuliano Ferrara. Leggiamolo di più.
Enzo Bettiza, La campagna elettorale (1952), Milano, BUR, 1976, pp. 206