E’ difficile immaginare un libro apparentemente più inattuale di questo di Giuseppe Prezzolini. Esce a metà degli anni Cinquanta ed è pensato per un Paese che, mentre sta conquistando un benessere insperato, sente il bisogno di comporre delle biblioteche modeste ma ben ordinate, di mettere assieme un’enciclopedia a fascicoli, di andare in pellegrinaggio nel le città d’arte per carpire da qualche scorcio o dalla visita a un museo i segreti della propria storia. Prezzolini scrive per i giovani che “studiano per conto proprio e non per la scuola", per quelli che “mentre stanno seguendo i programmi governativi, pensano che forse il meglio ed il più dolce viene da qualche escursione fuori dai campi scolastici”, per chi “avendo cessato di portare il giogo d’un impiego” vuole “rifarsi una vita con la cultura”. Scrive, insomma, per chi considera la “cultura” una chiave d’accesso a qualche stanza preziosa, lamenta d’esserne stato fuori, desidera entrarvi.
Il suo vantaggio, nel parlare a questo lettore, è che egli è “uno degli ultimi autodidatti che non possedendo diplomi regolari sia riuscito ad avere una posizione regolare nell’insegnamento, il che sta diventando sempre più difficile e raro ed irregolare persino in America, che si sta europeizzando e mandarinizzando a vista d’occhio”. Il fondatore della Voce, che da ragazzo aveva tradotto Swift e Hume e Stevenson senza aver mai messo piede in Inghilterra, era finito a New York dove prima ha diretto la Casa Italiana e poi insegnato italianistica alla Columbia. Non è che l’operaio specializzato che desidera “farsi una cultura” abbia i medesimi talenti di Prezzolini, ne avrà altri. Ma l’eccentricità di quest’ultimo ne fa un riferimento naturale per chi non ha potuto studiare, avrebbe voluto studiare, vuole mettersi a studiare a dispetto dei casi della vita.
Il tono del libro è un po’ paternalistico, ma prende sul serio l’intenzione del lettore di “imparare a leggere”. “Non ci si può decidere a formarsi una cultura, perché per avere questa idea bisogna avere di già una certa cultura. Il fatto è che ci troviamo dentro la cultura, senza accorgercene. Ci han fatti colti la scuola, la famiglia, la chiesa, i giornali, la società nei quali viviamo”. Anche gli autodidatti devono ringraziare la scuola che han fatto altri, magari i loro amici, da cui hanno appreso. Le frequentazioni personali, le conversazioni, i viaggi, tutto riesce utile “non soltanto la biblioteca, ma anche la strada” perché la cultura, parola che Prezzolini adopera con la giusta cautela, è “un rivestimento di cognizioni del nostro io, scelto non dai bisogni della vita esterna, ma dalle spontanee fantasie della nostra vita interna”.
La cultura non è solo un insieme di nozioni che possono essere trasmesse in un’aula. Nell’America in cui Prezzolini viveva, “due forze sembrano oggi contrastarsi il terreno: il culto dell’individualismo e quello del conformismo. Un’antica tradizione si richiama al diritto di pensarla come piace, ed una pratica moderna impone nelle scuole il valore democratico del «fare come gli altri», dell’adattarsi, del riconoscere che la maggiore virtù dell’uomo è quella di accettare il modo di vita della maggioranza”. Fra i due contendenti, era già evidente quale tirasse più forte ma lo era pure che “una vera cultura non può che essere non-conformista”. Non perché ciascuno di noi sia un genio in attesa di essere scoperto. Se ci capita di avere “idee originali”, è molto probabile che siano delle terribili scemenze. Ma perché la cultura è appunto una faccenda individuale, si ritaglia attorno alle nostre “spontanee fantasie”, riflette attitudini, posture, intuizioni che precedono l’apprendimento.
Per questo,
Tutto quel che un uomo colto può chiedere alla scuola pubblica è qualcosa di negativo; come, per esempio, il non averlo allontanato dalla cultura, il non averlo seccato e disturbato e ragli nemica la cultura, che pure è a disposizione di tutti gli studenti nella scuola, ma avviluppata in metodi didattici che considerano soltanto i mediocri e servono di scansafatiche al maestro.
Parla l’autodidatta che rifiuta l’istruzione ufficiale? Può darsi, ma a quanti ragazzi I Promessi sposi, o la chimica, o la filosofia, sono stati resi odiosi dai programmi ministeriali? I grandi insegnanti, e a molti di noi è per fortuna capitato d’incontrarne alcuni, accendono interessi e curiosità che non sospettavamo d’avere. Ma il più delle volte gli insegnanti sono né buoni né cattivi, come le commesse, i tassisti e i baristi, fanno onestamente e decorosamente il proprio mestiere che è trasmettere alcune conoscenze, gli alunni imparano e ripetono e raggiungono la sufficienza e scavallano l’anno scolastico. Non è detto, però, che in questo processo si comprenda che “la cultura è un’autoeducazione (…) una crescita ed uno sviluppo personale” che non “sta ferma” ma si nutre continuamente di quel che accade, di libri, eventi, film, chiacchiere, storie, e questo anche quando gli anni della scuola e persino dell’Università sono ormai ricordi sbiaditi.
Prezzolini esorta il suo lettore a imbarcarsi in un’avventura serenamente individualistica e lo aiuta a farsi un’idea dell’equipaggiamento di cui deve dotarsi. Si tenga sempre appresso una bella collezione di matite, e un temperino per farci la punta. Le usi per annotare. Prepari delle schede dei libri che legge. Scriva, e non importa se a penna o a macchina. Anzi, spiega, a macchina “è più chiaro, occupa meno spazio e si fa più presto (…) Quel che conta, ossia la parola, ha sempre lo stesso valore; col vantaggio grandissimo di non dover decifrare delle calligrafie infernali”. Viva le enciclopedie, anche quelle a fascicoli, le cui voci vanno prese come tante finestre che affacciano su un certo tema e stimolano ad approfondire. Mai separarsi dal dizionario “non soltanto per l’uso esplicativo, ma anche per quello esplorativo. Come gli orari ferroviari, i programmi delle linee di navigazione e gli itinerari turistici, anche il dizionario è un grande suscitatore d’immagini e di desideri di cognizioni”. Mai dimenticare che “nella vita della cultura, la biblioteca è più importante della scuola”.
Ci sono, in Saper leggere, belle pagine sulle traduzioni (che oramai hanno lo scopo pratico d’introdurre un testo e un autore mentre un tempo rivaleggiavano con l’originale), sul libro, sull’apprendere come fatica e come metodo. I consigli prezzoliniani sono tanti, mai venati di nostalgia, sempre attenti a non esagerare i vantaggi che possano venire dal seguirli. “Il primo dono che l’intelligenza e la cultura danno ad uno spirito è quello di far conoscere i loro limiti”. Il saggio venne pensato per un mondo che non c’è più. Ma forse sarebbe tutt’altro che inutile al lettore d’oggi. Viviamo in una società più alfabetizzata di tutte le precedenti che tuttavia non è detto che sia la più colta. Giustamente Prezzolini sottolinea i benefici dei riassunti, che aiutano a imparare a leggere “bene” - e che non si fanno più. L’idea della cultura come un viaggio personale, che non segue un tracciato, si nutre delle curiosità e gode delle deviazioni, è un antidoto all’idea burocratica che l’istruzione abbia a che fare con “skill” e “competenze”. La consuetudine col dizionario, l’uso delle matite, la preparazione di appunti su quel che si è letto: erano ricette per tutta una generazione che voleva istruirsi non necessariamente in vista di lauree e diplomi. Ma male non farebbero a chi cerca di conquistare l’agognato pezzo di carta e a chi desidera non farne solo un quadro da appendere in soggiorno, dove i nonni tenevano la loro bibliotechina.
Giuseppe Prezzolini, Saper leggere, Milano,Garzanti, 1956, pp. 286.