In un’ipotetica classifica dei libri più citati che letti, sarebbe difficile scalzare questo saggio di Julien Benda (1867-1956) dal podio. Il titolo è diventato un’espressione di uso comune, tirata per la giacchetta ora a destra ora a sinistra. E invece varrebbe proprio la pena leggerlo, soprattutto in giorni come questi.
Mi aveva molto colpito, che nella sua Storia della Mont Pèlerin Society, Max Hartwell (un grande storico purtroppo dimenticato) mettesse il libro di Benda assieme al saggio di John Maynard Keynes su “La fine del laissez-faire”. Usciti a pochi mesi di distanza, a metà degli anni Venti, la loro lettura contribuirebbe a spiegare perché Hayek e Mises, Friedman, Machlup, Popper, eccetera si diedero appuntamento sul lago Lemano nel 1947.
L’articolo di Keynes è una dichiarazione di fiducia nel potere dell’ “esperto”, ben equipaggiato. L’economista britannico ammette di buon grado che la straordinaria stagione di prosperità apertasi con la cosiddetta “rivoluzione industriale” sia frutto di un non fare, anziché di un fare, da parte dei pubblici poteri. Ma suggerisce che da quell’esperienza non vanno dedotti principi generali e le sfide dei tempi sono ormai troppo grandi per lasciarle al mercato. Serve qualcuno che, armato con le opportune teorie e i necessari poteri, le “gestisca”.
Quella di Benda è invece una meditazione sui limiti e sulle ragioni della hybris degli intellettuali, che sono finiti, spesso per convenienza, a farsi dominare dalle passioni politiche quando il mondo moderno ha deciso che essi dovessero essere “cittadini”, e magari cittadini alla testa di un manipolo di follower di qualche tipo. Un tempo i chierici “sotto i nomi di giustizia e ragione, esortavano gli uomini al rispetto di valori trascendenti i loro interessi”. Goethe invitava a lasciare la politica ai diplomatici e ai militari. Ma per farlo bisognerebbe riconoscere la politica come un’attività con uno scopo e un perimetro limitato, mentre non è più così, e in buona parte grazie agli intellettuali, che l’hanno resa una passione totalizzante, che non conosce limiti (qualche anno dopo diranno, non a caso, che il privato è politico, che è come dire che il privato non esiste più). Di qui l’impossibilità quasi per i chierici di non assumere posture politiche. “Il liberalismo è anch’esso una posizione politica, ma il meno che si possa dire è che da vent’anni il chierico l’assume di rado”.
Il principale obiettivo polemico di Benda era il nazionalismo bellicista che aveva trascinato l’Europa nella prima guerra mondiale. All’incontro con la politica di massa, il sentimento nazionale era diventato “orgoglio nazionale”, voglia di un popolo di mettersi contro gli altri in nome dei suoi caratteri più “autentici”.
La deriva romantica degli intellettuali squassa le conquiste dell’illuminismo, rende più vaghe e più pericolose le parole della politica, fa sì che “la guerra politica implichi la guerra delle culture”.
Si capisce perché Hartwell azzarda che la lettura di queste pagine abbia lasciato un segno su Hayek e sugli intellettuali liberali della sua generazione: perché, nel ricordo della prima guerra mondiale (Hayek era un “ragazzo del ’99”), suggeriva un legame fra l’inutile strage e la predicazione chierici che avevano rinunciato a provare a capire il mondo, per l’ebbrezza di cambiarlo.
Il nostro, diceva Benda, sarà il secolo degli odi politici intellettualmente organizzati e quest’organizzazione intellettuale dell’odio è il vero tradimento dei chierici diventati miliziani del potere. Il pensiero critico, il liberalismo, l’umanitarismo finirono vennero gettati via per primi dagli uomini di pensiero. “E’ ricominciata la storia”, avrà detto qualcuno anche allora, e sull’asservimento politico della storia, non a caso, Benda ha pagine potenti e illuminanti.
Julien Benda, Il tradimento dei chierici. Il ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea (1927), Torino, Einaudi, 1976, pp. 234