Con la crisi finanziaria prima e la pandemia poi, quel poco o quel tanto di “neoliberismo” (per usare la locuzione controversa e vacua che tuttavia va per la maggiore) che c’era nel dibattito pubblico è stato velocemente liquidato. Il settore pubblico viene costantemente caricato di nuove “missioni”, come la lotta al cambiamento climatico. Ma si riaffacciano anche cornici ideologiche, per esempio la “politica industriale”, che finite negli anfratti meno visitati della quadreria politica. Questo è il nuovo mainstream della discussione pubblica, animato da autentiche star intellettuali come Mariana Mazzucato, Thomas Piketty o Joseph Stiglitz.
Con questo suo veloce ma incisivo pamphlet, Giuliano Amato ha scelto di dire parole di cautela. Il Presidente della Corte Costituzionale si rivolge, evidentemente, a quella che è stata la sua parte politica. Scrive come giurista che a lungo si è interrogato sul rapporto fra Stato e mercato. Il lettore però non può dimenticare che egli è stato Presidente del Consiglio dei Ministri nel 1992-1993, trovandosi a fronteggiare sia una pesante crisi finanziaria che la fine della Repubblica dei partiti. Da capo del governo, con la “trasformazione degli enti di gestione delle partecipazioni statali in società per azioni, fatta dalla sera alla mattina con decreto legge”, intese dare un “alt” ai partiti, “espulsi, da quel momento, dal sistema in cui erano penetrati tanto a fondo”.
Il libro si apre con un richiamo al neo-istituzionalismo di Douglass North (1920-2015) e si conclude dando il “bentornato” a uno Stato che si confronta con nuove sfide ma “immune dai suoi vecchi vizi e lontano, in ogni circostanza, dall’hybris dell’accentramento autoritario”. Il saggio però si dipana proprio attraverso una garbata quanto implacabile analisi di quei vizi. Amato rifiuta la tendenza a contrapporre alle imperfezioni del mercato reale le buone intenzioni di uno statalismo idealizzato. Se anche gli argomenti teorici a favore dell’intervento pubblico fossero intellettualmente più persuasivi (cosa che egli tende a dare per scontato), essi devono poi diventare misure e politiche e ciò accade non alla lavagna ma nelle aule dei parlamenti e nei corridoi dei ministri.
Il richiamo a North serve ad Amato per abbozzare la tesi che colloca sullo sfondo del suo libro: “il mercato (…) è già di per sé frutto delle istituzioni, che lo organizzazione, che prepongono delle autorità al suo funzionamento che fissano le regole per i documenti necessari a vendere e a comprare, che asseverano le modalità di pagamento non immediato (le cambiali), che mettono a disposizione un tribunale per dirimere le vertenze”. Le istituzioni del diritto “surrogano” nello scambio fra estranei quei meccanismi di fiducia che risultano per così dire naturalmente dalle relazioni interpersonali, quando a scambiare sono individui che si conoscono. Il compito di creare fiducia è assieme un argomento per lo Stato ma anche un vincolo alla sua attività: fa sì che particolarmente pericolose siano le occasioni in cui, per ideologia o più spesso per umanissimi errori, lo Stato invece finisce per minare la fiducia degli operatori privati, per imbrogliarne le carte, per distorcere la competizione economica a vantaggio di uno degli attori in gara. In quei momenti, alle distorsioni di mercato si sovrappone una perdita di legittimità dell’attore pubblico: incapace di assolvere la sua funzione fondamentale.
Proprio per questo motivo l’autore, che non è affatto contrario all’idea che lo Stato possa abbracciare compiti nuovi, suggerisce cautela e sangue freddo nel giudicare come effettivamente tali compiti vengono espletati. Le “imperfezioni” dell’intervento pubblico, che Amato considera né più né meno frequenti e pericolose dei cosiddetti fallimenti del mercato, si presentano con tale regolarità che non è possibile liquidarle come mere anomalie. Soprattutto pensando alla storia italiana, e in particolare quella della Prima Repubblica, che Amato si fa carico di ricordarci. L’esperienza italiana è una grande collezione di fallimenti dello Stato, caratterizzati da una “ipertrofia” della proprietà pubblica delle imprese, a cominciare dai tristemente famosi “panettoni di Stato”.
“Sul finire del primo quarantennio di vita repubblicana”, rammenta Amato, “l’intervento pubblico nell’economia era articolato, penetrante e usava quasi tutti i tasti della sua possibile tastiera”. A ciò corrispondevano licenze, incentivi, partnership offerte alla grande industria. “Tutto ciò che i privati ottenevano dallo Stato (…) aveva un corrispettivo: molto spesso in danaro (la tangente), altre volte in natura, attraverso assunzioni di personale o apertura di sedi o succursali in luoghi scelti dalla politica. La quale aveva un ruolo ancora più intenso e continuato nei confronti delle società pubbliche”.
Indipendentemente dalle loro preferenze per una maggiore regolazione della vita economica, i neo-interventisti sembrano non porsi nemmeno il problema di come costruire un intervento pubblico nel quale questi vizi siano se non assenti, almeno attenuati. Amato suggerisce che sia opportuno ricordare prima di deliberare.
Giuliano Amato, Bentornato Stato, ma, Bologna, Il Mulino, 2022, pp. 112