Nel febbraio 2012, l’allora Presidente del Consiglio Mario Monti viene ricevuto da Barack Obama alla Casa Bianca. Il colloquio è cordiale, il nuovo premier riscuote favore a livello internazionale, la reputazione dell’Italia pare rinsaldata dopo una stagione difficile. Obama però non si rivolge a Monti come a un collega, quanto come a un fine conoscitore neanche della psiche europea, ma di quella tedesca. “Come faccio a interagire con Angela Merkel sulle questioni di politica economica?”, è la domanda che gli rivolge, dove interagire andrebbe letto così: come faccio a convincere i tedeschi a consumare di più. E’ opportuno ricordare due cose. Se a confronto del suo ex Vicepresidente Biden Barack Obama appare, retrospettivamente, come un “conservatore fiscale”, all’epoca l’agenda della Casa Bianca è comunque keynesiana. Innanzi agli “squilibri macroeconomici” dell’orbe terracqueo, la vulgata sostiene che i tedeschi debbano consumare di più, per riequilibrare alte esportazioni e modesta domanda interna. Nota bene: quell’anno, la Germania cresceva del 3%.
Monti era stato messo sull’avviso dall’ambasciatore statunitense in Italia, David Thorne. E con una buona dose di semplificazione, frutto vuoi della recente esperienza politica vuoi di un trascorso pluridecennale di editorialista, spiega a Obama:
Vale per la signora Merkel ma anche per quasi tutti gli esponenti del suo e degli altri partiti in Germania: i tedeschi considerano ancora l’economia una branca della filosofia morale e la crescita è la ricompensa per comportamenti eticamente corretti. Quindi è illusorio pensare di far cambiare opinione a un tedesco in materia di politica economica con i precetti keynesiani, pur molto rispettabili, che i tuoi consiglieri ti suggeriscono.
In bocca a un economista contemporaneo, magari di formazione “americana”, queste parole sarebbero una rasoiata sui colleghi tedeschi. Ma nelle 270 pagine di Demagonia Monti, che pure ci tiene a non passare per germanofilo, dà prova di pensare lui pure l’economia come una scienza sociale al servizio di una qualche versione dell’idea di “bene pubblico” non in senso economicistico, ma filosofico. “Come economista”, chiosa, “non ho avuto le soddisfazioni di altri, che si sono dedicati più intensamente di me all’attività di ricerca, non ho mai potuto ambire al premio Nobel a Stoccolma; ma quel momento di pedagogia economica al presidente degli Stati Uniti mi ha riempito il cuore”. All’atto pratico, il suggerimento era di tentare di persuadere i tedeschi ad accrescere la spesa per investimenti, anziché quella corrente o ad abbassare le tasse per lasciare più euro nelle tasche dei loro elettori per comprare jeans cinesi o telefonini americani.
Il suggerimento è intonato alla filosofia che Monti esprime con coerenza in queste pagine garbate, ma nelle quali di tanto in tanto si concede qualche paragrafo velenosissimo. L’ex Presidente della Bocconi ha una memoria inesorabile, e probabilmente anche un archivio ben ordinato, al quale attinge a piene mani. Demagonia è un libro anomalo, in parte un'autobiografia, in parte un tentativo di offrire, undici anni dopo la conclusione del suo governo, “la versione di Monti”. Vale la pena ripercorrerla per sommi capi.
Monti nega che il suo governo fosse frutto di una cospirazione di palazzo: l’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi era a pezzi, la sua credibilità falcidiata sia dalle vicende private del premier (sulle quali Monti sorvola con eleganza) sia dalla politica economica. Per quanto riguarda quest’ultima, Monti sottolinea le tensioni fra il suo predecessore e il ministro dell’economia Tremonti, da alcuni accreditato dell’ambizione di prendere il posto del Cavaliere. Nel benedire il nuovo governo, Berlusconi (che si fece da parte con un senso delle istituzioni riconosciutogli da pochi) raccomandò tutti i suoi vecchi ministri come “i più bravi del mondo”, salvo appunto quello dell’economia. Al quale però, per chiudere il cerchio dei meriti dimenticati, andrebbe riconosciuto che coi suoi detestati tagli lineari ha fatto di più per mettere sotto controllo la spesa pubblica di tutte le fantomatiche spending review: quella di Monti e le successive.
Oltre a difendere a spada tratta la buona fede di Giorgio Napolitano (cui il libro è dedicato e che viene ricordato con indefettibile ammirazione), Monti riconosce molto alla competenza e al valore di Elsa Fornero, che aveva incontrato la prima volta quando venne “invitato a insegnare come professore incaricato a Torino” e lì godette “dell’amicizia e dell’esempio di un fratello maggiore, il professor Onorato Castellino”, maestro della giovane Elsa. La riforma Fornero fu “la singola misura più decisiva per evitare il collasso finanziario dell’Italia”. Non è forse generosissimo però sostenere che “il nostro governo ha dovuto fare in due settimane quello che i governi precedenti avevano rinviato per due decenni”: la storia delle riforme previdenziali in Italia è un po’ più complessa (fra riforme e contro-riforme, la più rilevante fra le prime quella di Dini, fra le seconde quella di Damiano).
Monti nega di essere un tecnocrate “con il cuore duro (se mai ne ha uno)” ed esibisce il suo amore per l’Italia, che lo spinse a prendersi quella che in gergo si chiama “una bella gatta da pelare” nel momento peggiore.
Monti in parte rivendica il rigore del suo governo come un valore, in parte cerca di levarsi di dosso la fama di “affamatore del popolo”. Si trovò su una strada, sostiene, che era l’unica possibile - e se gli italiani avessero un po’ di memoria, lo ringrazierebbero per averla percorsa. Un elemento importante del libro è però la critica montiana alla famosa “lettera della BCE” del luglio 2011. In parte, l’autore vuole mettere i punti sulle i rispetto alla contrapposizione giornalistica fra “la linea del governo Draghi, sensibile alle esigenze della crescita, e quella del governo Monti, cultore perverso dell’asperità”. Quest’ultimo avrebbe “avuto in sorte di somministrare agli italiani un pasto sgradevole che porta il suo nome, anche se è stato cucinato in collaborazione da Draghi e da Berlusconi”.
Scrive l’ex premier:
i mesi del 2011 che separano la lettera della BCE dall’arrivo al governo dell’emergenza da me presieduto, coincidono con la preparazione del cambio di vertice alla BCE.
Mario Draghi, in quanto italiano, era visto con sospetto dal sistema tedesco che aveva dovuto rinunciare al proprio candidato al vertice della BCE, Axel Weber, e si aspettava quindi rassicurazioni.
I tempi del «Whatever it takes» dell’estate 2012 erano lontani. Nel 2011 Draghi era ancora impegnato in un «apprendistato teutonico» che lo portava ad assecondare le richieste di Berlino anziché arginarle, al punto da proporre quel severo pacchetto di regole contabili che poi sarebbe diventato noto come «Fiscal Compact».
Rispetto al Fiscal Compact, Monti rammenta una riunione del Consiglio europeo (“il primo anche per Draghi”) nel quale ne venne presentata una bozza:
mi colpì che il nuovo presidente della BCE intervenisse spesso chiedendo aggiustamenti al testo, per sottolineare questo o quel passaggio, in modo che risultasse più esplicito, più severo, tanto che a un certo punto chiesi: «Ma stiamo preparando un testo legale o un comunicato stampa per impressionare l’opinione pubblica?»
La tentazione è forte, ma sarebbe sbagliato leggere queste sapide righe come una polemica fra i due Mario. La cosa che personalmente mi dispiace di più, della parte autobiografica di questo libro, è che Monti parla poco o niente di “Tendenze monetarie”, lanciato con la complicità di Sergio Siglienti e che era “un bollettino mensile che faceva quello che, all’epoca, la Banca d’Italia considerava irrilevante, cioè monitorare la quantità di moneta in circolazione”. Operazione, all’epoca, coraggiosissima.
Monti ha fatto il professore, l’editorialista, il Rettore prima e il Presidente della Bocconi poi, il Commissario europeo, il premier, il leader di partito, il senatore. Un cursus honorum che basterebbe per molte vite. Ma la sua testa aveva la conformazione giusta per un ruolo che non gli è toccato in sorte di occupare: quello di banchiere centrale. Non a caso ricorda i seminari organizzati da Karl Brunner sul lago di Costanza e i primi incontri con l’approccio culturale della Bundesbank fra i momenti che ne hanno plasmato la forma mentis. La sua critica alla lettera della BCE è mossa dalla convinzione (probabilmente condivisa anche da alcuni tecnici dell’istituto di emissione) che si trattasse di uno strumento che portava la Banca su un terreno che non era il suo, avvicinandola pericolosamente alla lotta politica e dunque minandone, sul lungo periodo, la stessa indipendenza.
C’è molto che non convince nell'analisi di Monti del “populismo” - ed è un po’ autoassolutoria anche la narrazione che fa della vicenda di “Scelta civica” (è davvero un merito storico aver evitato la vittoria del centrodestra? se SC “ha conquistato quasi il doppio dei consensi di progetti analoghi sviluppati negli anni successivi”, la colpa della pessima performance di questi ultimi non è ascrivibile anche alla rapidissima conclusione di quell’esperimento?). Monti non solo è invece pienamente convincente, ma scrive pure con la cristallina limpidezza di chi ha pieno possesso di quel che dice, quando spiega come causa forse non sufficiente ma necessaria del populismo è stata una certa politica monetaria:
L’altra ragione, che contribuisce a spiegare il fiorire di proposte poco responsabili sulla finanza pubblica è (…) la perdurante accondiscendenza monetaria della Banca centrale europea.
Il protrarsi del quantative easing ha causato, con il finanziamento facile del settore pubblico e i tassi di interesse molto bassi, un effetto anestetico, un artificiale offuscamento delle reali condizioni della finanza pubblica e dell’economia. Si sono così attenuati gli stimoli a completare il risanamento finanziario e le riforme strutturali.
Erano di questo tipo le ragioni per le quali il «Corriere della sera», alla fine degli anni Settanta, chiedeva che la Banca d’Italia fosse meno subordinata alle esigenze di finanziamento del Tesoro e nel 1981 aveva appoggiato il «divorzio» deciso consensualmente dal ministro Beniamino Andreatta e dal governatore Carlo Azeglio Ciampi.
La politica monetaria può inquinare il sistema dei prezzi e imbrogliare i segnali di mercato, inclusi quelli che riguardano il debito pubblico e la sua sostenibilità. Nel settore privato tassi d’interesse troppo bassi portano alla moltiplicazione di presunti investimenti che si riveleranno invece spese azzardate. Nel settore pubblico, inducono ad abbandonare il consolidamento fiscale. L’economista varesino queste cose le ha chiarissime, e le spiega in modo chiarissimo.
La lettura del libro di Mario Monti consolida un’impressione che ho da tempo: cioè che siamo stati tutti ingenerosi con la sua esperienza di governo, chi per un motivo e chi per l’altro. Nelle circostanze complicate della politica italiana, forse non era possibile fare di più ma soprattutto, e quel che più conta, nessuno di quelli venuti dopo di lui ha nemmeno provato a fare di più.
Proprio per questo, mi permetto di segnalare tre questioni sulle quali ci sarebbe da discutere.
La prima riguarda gli anni da commissario europeo. Sono pagine intense quelle che Monti dedica a quell’esperienza, presentata come un prezioso apprendistato politico-diplomatico per il calvario di Palazzo Chigi. Il resoconto delle battaglie sui duty-free e le Landesbanken sono interessanti. Non mancano però le contraddizioni, quando si parla di GE-Honeywell (Monti fece naufragare il progetto del più famoso manager del mondo, Jack Welch) e poi della vicenda Microsoft. Da una parte Monti presenta il benessere del consumatore come pietra angolare di un buon approccio antitrust e nega che la politica della concorrenza europea sia (anche) protezionismo sotto mentite spoglie. Poi usa parole di ammirazione per la nuova dottrina antitrust americana, quella dell’amministrazione Biden, che ha superato il principio del benessere del consumatore sacrificandolo a ideali più vaghi e prassi più dirigiste. Poi ancora vanta come cifra dei suoi successi l’aver contribuito all’identità di questa strana cosa che è “l’Europa”, tracciando un solco nel quale i suoi successori si sono inseriti. Che dire? Peccato. Non solo e non tanto perché la lungimiranza di alcune decisioni appare quantomeno dubbia, visto quello che è poi avvenuto sul terreno della tecnologia (Microsoft). Non solo e non tanto perché l’“Europa” sortita da quelle decisioni antitrust è quella del lapidario epigramma “l'America innova, la Cina replica, l'Europa regola” (anche se, ormai lo sappiamo, la Cina innova anche lei). Ma soprattutto perché invece i saggi principi della concorrenza come sistema di regole e della limitazione agli aiuti di Stato, fatti valere da Monti in tante occasioni, meritavano una difesa robusta contro il nuovo “consenso europeo”. Che ahinoi subordina la concorrenza a una politica industriale di dichiarato impianto protezionista.
La seconda riguarda il premierato, a cui Monti dedica le pagine finali del libro. “Dal punto di vista logico”, scrive, “non mi sembra corretto esprimere un giudizio negativo su una riforma della Costituzione perché essa avrebbe il sapore di uno sgarbo al Capo dello Stato in carica”. Sante parole, e spiace che alla stessa conclusione non arrivi il grosso dei commentatori. Parimenti, con onestà intellettuale, Monti non sostiene che il premierato potrebbe gettare le basi per un governo autoritario. Egli crede invece che renderebbe l’Italia “meno governabile” poiché ostacolerebbe i governi di unità nazionale, peraltro con un argomento curioso:
Ci sarà pure una ragione se il Parlamento, non sondaggi copione o la stampa dei “poteri forti”, ha approvato con le più elevate percentuali di fiducia le nascite di tre governi di unità nazionale, presieduti dal sottoscritto (87,8 per cento come media tra Camera e Senato) per fronteggiare la crisi finanziaria del 2011, da Mario Draghi (83,3 per cento per debellare il Covid e programmare l’impiego dei fondi europei nel 2021) e Giulio Andreotti (84,6 per cento dopo il rapimento di Aldo Moro).
Le circostanze che spiegano il voto di fiducia non implicano necessariamente incisività nell’azione di governo. L’idea di rifiutare una riforma che dà la possibilità agli italiani di scegliere da chi essere governati, e rafforza poteri del presidente del consiglio che tutti consideriamo troppo deboli perlomeno dall’inizio degli anni Ottanta, risulta particolarmente stonata in un libro che vorrebbe frenare l’agonia delle democrazie.
Se la proposta Meloni è già stata rammendata per consentire governi emergenziali (anche se a guida “politica”), nello stesso tempo non si può ipotizzare che l’emergenza debba essere, in Italia, la normalità. Le regole vanno scritte considerando i peggiori scenari possibili, ma sarebbe esagerato ritagliarle esclusivamente su di essi. In più, è evidente che l’irresponsabilità fiscale dei cosiddetti populisti (e non solo loro) deriva anche da un sistema nel quale la domanda che viene fatta agli elettori è: “chi ti rappresenta?” (quesito al quale si può legittimamente rispondere indicando il vincitore della gara di rutto libero) e non “chi vuoi che ti governi, e si sieda accanto al premier britannico o al presidente francese”. Come nei sondaggi che Monti tanto dileggia, anche alle elezioni le persone rispondono alle domande che vengono fatte loro.
Terzo. Monti non è un keynesiano, quindi ci risparmia improbabili “moltiplicatori” della spesa per investimenti. Però la difende a spada tratta. Nella stagione della “demagonia” servono “beni pubblici che il mercato non può produrre in modo spontaneo”. “Nessun taglio delle tasse può garantire la sicurezza che tutti pretendono, rispetto alle nuove minacce esterne di attori aggressivi, o di fronte alla prospettiva di un futuro incerto nel quale l’aumento delle temperature mette a rischio addirittura la prospettiva della specie umana”.
Viene da chiedersi dove sia andata a finire la sobrietà del professor Monti. Il profilo dei “beni pubblici” che andrebbero finanziati con (più) gettito fiscale è a esser generosi un po’ confuso. Se la difesa nazionale (o europea?) è un campo per definizione sottratto al mercato, che cosa debba essere finanziato per combattere la minaccia del global warming non è chiarissimo, non è detto siano “investimenti” (spesso si parla di compensazioni e sussidi per i perdenti della transizione verde) e non lo è nemmeno che una risposta efficace venga da più spesa pubblica e non, per esempio, dallo sviluppo tecnologico. Da Monti ci si aspetterebbe poi un approccio che non considera “la spesa che c’è” intoccabile. Se la spending review, come scrive in altre pagine, è una premessa per spendere meglio, dovrebbe essere parimenti una premessa per non spendere sempre per le stesse cose.
Monti se la prende a più riprese coi partiti che agitano la promessa di un taglio delle tasse, imputando loro di aver scassato i bilanci pubblici. Li avranno pure scassati, questi bilanci pubblici, ma la pressione fiscale, in Italia, è continuamente cresciuta, dal “meno tasse per tutti” di Berlusconi in avanti. L’ex Presidente della Bocconi sembra convinto che i denari dei contribuenti siano meglio impiegati dallo “Stato investitore” che dai contribuenti stessi: ma quali investimenti questo Stato debba fare, non lo spiega. Se non ritiene che essi vadano fatti a debito (la distinzione “fra debito cattivo e debito buono spesso risulta un po’ difficile da interpretare per i creditori internazionali”), li indica comunque come una strada salvifica. La destinazione, però, resta ignora.
L’autostrada del sole, le ferrovie e l’elettrificazione, intesi come grandi investimenti cui corrisponde una riduzione dei costi di transazione e quindi un maggiore slancio dell’economia privata, appartengono a un’altra epoca. L’equivalente è la banda larga? Non lo dice più nessuno, tant’è che anche lo Stato che vuole ricomprare la rete TIM sventola pretese ragioni di sicurezza, non ipotetici effetti sulla crescita. L’intelligenza artificiale? Mario Monti tutto vorrebbe, e giustamente, fuorché che lo Stato giocasse alla roulette.
Quest’enfasi sulla spesa per investimenti mi sembra sempre una sorta di feticcio intellettuale. Una volta Vito Tanzi, che ha avuto molte meno soddisfazioni di Monti come uomo di governo, mi disse di avere appreso dalla sua esperienza di sottosegretario che, è vero, la spesa corrente è per definizione fatta per alcuni beneficiari. Però anche la spesa per investimenti è stata cucita addosso a qualcuno, solo che il nome del favorito è stato occultato. E’ un’illusione pensare che la prima riveli autointeresse e miopia della classe politica e la seconda senso civico e lungimiranza: perché la classe politica che determina le spese di un tipo e dell’altro è sempre la stessa e avrà dunque i medesimi obiettivi.
Del Monti scrittore credo che si possa dire insomma quel che si può dire del Monti premier: che era ed è tanto più convincente, quanto meno si sforza di fare il politico.
Mario Monti, Demagonia. Dove porta la politica delle illusioni, Milano, Solferino, 2024, pp. 272.