E’ difficile scrivere un libro equilibrato sul declino dell’Occidente e sull’ostilità che esso ha suscitato e suscita in società diverse. Amin Maalouf ci è riuscito, forse per ragioni biografiche: Maalouf è un cristiano-maronita del Libano trasferitosi in Francia, la sua prosa è intrisa della cultura di questo Paese e oggi è secrétaire perpétuel dell'Académie française, carica a vita (è succeduto a Hélène Carrère d'Encausse, grande storica della Russia, venuta meno, a 94 anni gagliardamente portati fino all’ultimo, pochi mesi fa).
Se non fosse lungo quattrocento e più pagine, verrebbe da dire che Il labirinto degli smarriti è quasi un instant book: è scritto nel mezzo della tempesta geopolitica in cui ci troviamo, ne risente, cerca appigli nella storia (l’epigrafe è di Faulkner: The past is never dead. It’s not even past) per darci un senso. “Per certi aspetti, ciò che sta accadendo è senza precedenti, ma per altri rimane in linea con i conflitti che nel passato hanno contrapposto l’Occidente ai suoi avversari”.
Questi conflitti sono, per alcuni, il marchio dell’arroganza delle società occidentali, che ovunque siano andate nel mondo hanno predato paesi tecnologicamente più arretrati. Di lì, veniva tutto ciò che ha effettivamente reso possibile la prosperità occidentale, che si fonderebbe sulla spoliazione sistematica di culture più deboli. La tragedia del Congo Belga è il caso più eclatante, che però ci aiuta (oggi, perché per troppo tempo non abbiamo osato) a comprendere anche gli altri.
Altri, invece, rileggono l’espansionismo europeo fuori dall’Europa come un processo che ha avuto più luci che ombre: gli inglesi non saranno stati sempre animati dallo spirito più umanitario, ma l’Impero britannico in linea di massima ha portato con sè la rule of law e la lingua inglese, con indubbi vantaggi. La biasimata influenza occidentale è stata, molto spesso, anche un grimaldello per scardinare pratiche secolari improntate a credenze folli e crudeli, che mettevano ai margini intere categorie di persone. Senza la Compagnia delle Indie, la prassi del sati (bruciare le vedove sulla pira funeraria del marito) non sarebbe mai stata abolita e fu un spirito liberale ed elevato quale quello di Macaulay a riscrivere il diritto penale indiano.
E’ molto difficile dare conto in modo equanime di fenomeni che abbracciano secoli e Paesi diversi e che tirano in ballo anche categorie che, per quanto siamo i primi a non accorgercene, non siamo più capaci di maneggiare (un “Impero”, per intenderci, non è uno “Stato”). La brutalità di quelle che eufemisticamente chiamiamo “avventure” coloniali è il più delle volte manifesta, ma dedurne, per esempio, che la dominazione occidentale abbia mantenuto quei Paesi nel sottosviluppo anziché aiutarli, almeno marginalmente, a entrare nel circuito degli scambi sarebbe, probabilmente e in termini generali (ogni caso è un caso a sé), un errore. Ci sono cose per cui l’Occidente deve senz’altro sentirsi in colpa ma, come dire, è bene scegliere quelle giuste, le colpe effettive e non quelle immaginate sull’onda di una qualche versione della teoria del “buon selvaggio”.
Maalouf non cade in nessuna di queste trappole, anche per i tre Paesi su cui decide si concentrarsi: Giappone, Russia e Cina. Più volte Maalouf sottolinea come gli Stati Uniti, i quali spesso in politica internazionale fanno orribili pasticci, abbiano però azzeccato la strategia per uscire dalla seconda guerra mondiale, costruendo solidi legami di amicizia non solo con Italia e Germania ma anche col Giappone. Le umiliazioni inflitte agli sconfitti (e anche la sostanziale indifferenza per i nipponici, che pure erano fra i vincitori) a Parigi avevano posto le premesse per un secondo tempo della “guerra civile europea”. Dopo la caduta di Hitler, per quanto le differenze ideologiche fra le parti siano ben più marcate di quanto fossero nel 1918, si cerca di fare diversamente. A grandi linee, la ricostruzione è verosimile anche se il disarmo degli sconfitti racconterebbe un’altra storia. Ma gli esiti delle decisioni si vedono nel medio termine e non c’è dubbio che fra vent’anni di pace precaria e settant’anni di pace e prosperità non ci sia paragone. “Gli americani trattarono il Giappone con un paternalismo generoso e solido, senza molti equivalenti nella Storia; e il Giappone si dimostrò totalmente leale”.
Per Maalouf,
La radicale abolizione della tentazione imperialista all’indomani della seconda guerra mondiale fu certamente un elemento indispensabile per il successo economico (…) il paese si concentrava ormai sulla produzione civile, liberandosi delle preoccupazioni politiche e militari che ne avevano offuscato il giudizio negli anni precedenti.
L’articolo 9 della nuova Costituzione dichiarava infatti che “il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia e all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali” (non siamo tanto lontani dal nostro articolo 11).
Maalouf considera la smilitarizzazione non un tentativo di “castrazione politica”, bensì un’occasione per liberare le forze dell’economia dalla “tassa” rappresentata dall’espansionismo militare. Ne Il labirinto degli smarriti è chiaro, seppure l’autore non lo dichiari esplicitamente, che la fortuna delle società occidentali si basa soprattutto sulle loro economie di mercato, che i loro “avversari” non sono riusciti a replicare.
Perché questo non è avvenuto? Secondo Maalouf perché i conflitti fra Paesi occidentali e no spesso sono riconducibili all’arroganza degli europei (pensate solo alle guerre dell’oppio, una sorta di war on drugs al contrario in cui l’Inghilterra difese il suo cartello del narcotraffico) e sempre rivelano l’ansia di “modernizzazione” che l’incontro con la tecnologia occidentale produce in chi non ce l’ha. E’ possibile rileggere in quest’ottica anche il socialismo nelle sue varianti sovietica e cinese, l’una e l’altra tentativi non solo di far prendere la rincorsa ai rispettivi Paesi ma anche di superare in volata l’Occidente, anticipandolo al prossimo appuntamento con la storia.
La “modernizzazione coercitiva”, del resto, è stata sperimentata con entusiasmo in primis dagli occidentali: nei Paesi europei, a cominciare dalla Germania prussiana, che misero in campo qualsiasi strumento per riacciuffare l’Inghilterra industrializzata. O nelle cosiddette “aree depresse”, pensiamo solo al Mezzogiorno italiano, alle quali venivano imposti prassi e comportamenti precisi, nella convinzione che di lì passasse lo sviluppo. Una crescita non “organica”, non spontanea, ma basata su una radicale trasformazione, spesso non solo economica, alla quale gli “sviluppandi” dovevano adattarsi con le buone o con le cattive. Esperimenti simili, nel mondo, hanno prodotto non solo stagnazione economica quanti pure disastri umanitari: come avvenuto col “grande balzo in avanti” di Mao.
Il fatto di essere rimasti, più o meno, economie di mercato è stato il grande vantaggio dei Paesi occidentali, che hanno potuto contare su una crescita il cui propellente era la logica delle convenienze, non qualche obiettivo politico. Volgendo lo sguardo all’oggi, Maalouf si chiede se sia ancora così:
E’ chiaro che i confini ideologici tra i due campi globali sono ormai sfumati. Da questo punto di vista, la nuova guerra fredda assomiglierà poco alla precedente. Ma la differenza più significativa è quella economica.
Questo fattore è stato decisivo nella competizione tra capitalismo e comunismo, garantendo il trono dell’uno e la scomparsa dell’altro. Gli avversari dell’Occidente, spesso pericolosi militarmente e politicamente, potevano contare su un sistema economico dirigista che si è sempre dimostrato inefficace. Oggi non è più così, anzi è quasi il contrario
Esaminando per quanto sommariamente i proclami di leader come Putin e Xi Jinping, Maalouf non crede che il campo “eurasiatico” sia molto persuasivo, nel rivendicare il diritto a una libertà diversa da quella americana, che prescinde dal riconoscimento dei diritti individuali. Riconosce invece la forza del loro messaggio sul tema dell’egemonia globale. “Quando si dice che gli Stati Uniti e i loro alleati si comportano come se avessero il diritto di gestire a loro piacimento i problemi dell’intera umanità, si tratta di un’opinione ampiamente condivisa nel resto del mondo”,
E’ molto circolato, su Twitter/X, un video nel quale il Presidente della Guyana Mohamed Irfaan Ali metteva energicamente al suo posto l’intervistatore della BBC, pronto a pontificare su trivellazioni off shore ed emissioni. “Come vi permettete” non è una reazione spropositata, da parte di un Presidente di un Paese in cui il PIL pro capite è di poche migliaia di dollari l’anno, nel rispondere a chi vorrebbe paracadutargli addosso politiche ambientali non a caso concepite in Paesi che hanno alle spalle duecento anni di crescita economica.
Maalouf è pienamente convinto della bontà di quei valori che consideriamo i “pilastri” dell’Occidente, ma non crede che qualsiasi esportazione occidentale sia positiva. Racconta bene i momenti nei quali l’incontro con l’Occidente è stato un autentico shock. Ripercorre (nel quarto capitolo del libro) le scelte principali nell’ultimo secolo della potenza egemone americana, criticando con argomenti non nuovi ma solidi le prodezze parigine del Presidente Wilson, incline a una applicazione sbilenca (e comunque artificiale e artificiosa) del “principio di autodeterminazione”.
Oggi sono molti gli “occidentali con l’elmetto”, fra i quali alcuni neo-convertiti alla causa, molto zelanti ma inclini a fare una certa confusione. E’ difficile, per esempio, dare la colpa del crac dell’industria automobilistica europea “alla Cina”: non è colpa dei cinesi se gli europei hanno deciso di puntare, con un dirigismo forse mai visto in tempi di pace, su un’unica tecnologia, l’elettrico; se hanno deciso di sussidiare consumatori altrimenti riottosi nell’adottarla; e se un produttore cinese si è rivelato più bravo nel realizzare quel particolare prodotto, minando così la posizione dominante del “primo arrivato” Tesla come case automobilistiche europee di secolare tradizione non sono riuscite a fare.
Il libro di Maalouf, a differenza della maggior parte delle cose che ci capita di leggere, è lucido ed equanime. Sarebbe auspicabile in molti lo leggessero e ci riflettessero, ma ovviamente non accadrà.
Amin Maalouf, Il labirinto degli smarriti. L’Occidente e i suoi avversari (2023), Milano, La nave di Teseo, 2024, pp.442.