C’è un che di schizofrenico nelle vicende di questi giorni. Da una parte, sembra crescere il consenso sul fatto che non solo la variante Omicron è più trasmissibile, ma pure che essa causa sintomi più lievi. Il Financial Times ha messo in prima pagina il rialzo delle azioni delle imprese dei trasporti e del turismo. Se un mese fa era una corsa ad annullare impegni e viaggi, ora siamo, dal punto di vista individuale, molto più tranquilli. Non sono più soltanto i dati sudafricani a suggerire che siamo davanti a un “disaccoppiamento” dell’andamento di contagi e ospedalizzazioni.
In molti Paesi i governi stanno di fatto riducendo le restrizioni. Boris Johnson, in un discorso molto equilibrato, ha annunciato l’alleggerimento dei vincoli che pesavano sui viaggiatori in entrata e in uscita nel Regno Unito: “quando la variante Omicron è stata identificata per la prima volta, abbiamo giustamente introdotto restrizioni di viaggio per rallentare il suo arrivo nel nostro paese. Ma ora Omicron è così diffusa che queste misure stanno avendo un impatto limitato sulla crescita dei casi, mentre continuano a comportare costi significativi per la nostra industria dei viaggi.” Un po’ dappertutto sono state accorciate le quarantene: il problema più rilevante, con un aumento così vertiginoso dei positivi, per quanto tipicamente con sintomi lievi, è evitare che vengano a mancare le persone che servono per assicurare i servizi essenziali.
Per la prima volta dall’inizio della pandemia abbiamo superato il tetto del milione di nuovi casi al giorno nella sola Europa. Si parla tuttavia di un rapporto fra infezioni registrate e decessi decisamente più basso che nelle “ondate” precedenti: una letalità del 0.26% contro il 4% registrato in precedenza, in alcuni Paesi. C’è chi teme che l’alto numero di infezioni sia destinato comunque a riproporci lo scenario da incubo di sistemi sanitari che vanno in tilt a causa dell’alto numero di pazienti Covid.
Ci sono però pure ragioni di ottimismo: tanto per cominciare, la popolazione suscettibile al virus è diminuita.
Non solo sono stati sviluppati, a tempo di record, alcuni vaccini contro la malattia Covid-19 ma essi fanno il loro mestiere, tenendo molte persone lontane dagli ospedali. In questi giorni, le autorità di regolamentazione hanno dato l’ok anche ad alcuni trattamenti per pazienti affetti da Covid, per ora molto costosi ma che rappresentano un autentico punto di svolta.
Sul versante politico e della comunicazione pubblica, in Italia, invece sembra il “giorno della marmotta”: a ogni notizia, si rinnova quel senso di apocalisse che domina il nostro discorso pubblico dal marzo 2020.
Da una parte, anche il governo italiano prende atto che i sintomi di Omicron sono più lievi e accorcia le quarantene.
Dall’altra, nel giro di due settimane abbiamo avuto l’estensione del Green Pass al trasporto pubblico e ora a “a pubblici uffici, servizi postali, bancari e finanziari, attività commerciali fatte salve eccezioni che saranno individuate con atto secondario per assicurare il soddisfacimento di esigenze essenziali”, l’obbligo di indossare la mascherina “FFP2” in molti esercizi aperti al pubblico (con conseguente calmiere per le mascherine), l’obbligo di portare la mascherina anche all’aria aperta, la necessità del Super Green Pass per accedere ai luoghi di lavoro e infine l’obbligo vaccinale per le persone che hanno più di 50 anni.
Una vertigine di nuove misure di cui si fatica a comprendere la ratio. Da una parte si chiede un test negativo anche ai vaccinati che arrivano da altri Paesi UE per entrare in Italia, dall’altra si riduce lo spazio del Green Pass “base”, quello accessibile anche ai non vaccinati che siano negativi al tampone (per ridurre la domanda di test?). Per la scuola elementare “in presenza di due o più positivi è prevista, per la classe in cui si verificano i casi di positività, la didattica a distanza (DAD) per la durata di dieci giorni”. Siccome è improbabile che tutta una classe di metta d’accordo per essere “positiva” esattamente nello stesso momento, e lo è di più che magari compaiano uno o due casi per volta, l’impressione è che sia facile che questi dieci giorni siano destinati a non rimanere dieci. Intanto i presidi a loro volta spingono per la DAD, perché l’obbligo vaccinale per gli over50 li costringe a effettuare delle sostituzioni nel personale, materia che non può essere gestita in un paio di giorni.
Siamo, almeno in parte, vittima della nostra narrazione. L’opinione pubblica vive in uno stato di ansia permanente e non riusciamo a renderci conto dei tanti vantaggi che oggi abbiamo rispetto a un anno fa: a cominciare dall’alta percentuale di vaccinati, un successo che il governo potrebbe rivendicare e che invece sembra in qualche modo “subire”. L’impressione è che, come spesso avviene in politica, i mezzi si trasformino in fini. E’ il caso del Green Pass. Nelle intenzioni di chi per primo li ha proposti, i “pass sanitari” servivano essenzialmente a due cose: in primo luogo, dovevano rendere possibili eventi che si sarebbero rivelati, altrimenti, occasioni di contagio (concerti, grandi manifestazioni, eccetera). In seconda battuta, dovevano “incentivare” la vaccinazione. In Italia, la disponibilità delle persone a vaccinarsi era già molto elevata prima dell’introduzione del Green Pass (a differenza che in Francia), che sembra essere diventato un autentico feticcio.
Quasi l’87% della popolazione italiana over 12 ha completato il ciclo di due dosi di vaccinazione, circa il 70% degli aventi diritti ha già fatto la terza. Non è chiaro l’impatto che avrà l’obbligo: nella medicina moderna c’è il consenso informato e nelle società libere c’è l’obiezione di coscienza. In più, non è nemmeno chiaro quale sia la percentuale di popolazione che non è stata vaccinata a causa di condizioni di salute che sconsigliano la vaccinazione. La gente sente parlare di “obbligo” e pensa di trovarsi i carabinieri, armati di siringa, alla porta. Per fortuna non è così. Inoltre, come sempre si tende a vedere una certa policy come se avesse solo benefici (vacciniamo la totalità del Paese!) e non anche dei costi. L’obbligo alimenta le visioni più distorte e complottiate sui vaccini, i No Vax penseranno di aver avuto ragione sin dal principio e probabilmente la quota di esitanti, in caso di una futura, ipotetica quarta dose, crescerà, non diminuirà. Su questo pesa anche il maggiore errore di comunicazione (e non solo) del governo: aver presentato sin da principio il vaccino non come un vantaggio offerto ai singoli individui, per evitare i sintomi più gravi, e assieme un aiuto al servizio sanitario nazionale, per non riempire le terapie intensive, ma invece come un “dovere civico” sulla strada dell’eradicazione del Covid.
Un refrain di questi anni è che siccome il virus muta, le regole devono cambiare con esso. Ma se cambiano una volta ogni due settimane è difficile considerarle “regole”. In più, queste norme non rappresentano un bene in sé ma dovrebbero essere funzionali a un obiettivo: se la quota di vaccinati è così alta, perché non ricalibrare il Green Pass per esigerlo in meno situazioni anziché in più luoghi? Se deve richiederlo il datore di lavoro, perché non sollevare dall’onere, ad esempio, i ristoratori? La risposta alla domanda è probabilmente che tutte queste regole sono in larga misura segnaletiche, in un Paese di 60 milioni di abitanti non possono corrispondervi controlli efficaci e quindi si spara nel mucchio. E’ una vecchia strategia tutta italiana: siccome i controlli fanno acqua, “normiamo” tutto il normabile, così che qualche pesce s’impigli nella rete.
Il tutto nel segno di quel paternalismo che è la vera cifra della gestione italiana della pandemia. Nonostante gli italiani si siano dimostrati straordinariamente ligi alle regole, nonostante si siano vaccinati con un entusiasmo che nessuno si aspettava, continuiamo a considerarli come dei bambini. Si spiega così una ossessione contemporanea degli opinion maker pandemici: l’avversione ai test rapidi.
Come abbiamo ricordato Gilberto Corbellini e io su Linkiesta,
Come la produzione di vaccini in pochi mesi, così la comparsa di test rapidi anti-Covid in poche settimane è uno dei “miracoli” dell’ultimo anno. È normale che, con il passar del tempo, dal test diagnostico si arrivi, come si sta facendo, al logico passo successivo: agli strumenti di auto-diagnosi. Peraltro, tutti i test sono stati approvati dagli stessi regolatori: sono passati, dunque, attraverso il medesimo processo. La società libera è fatta di “algoritmi”, di processi quanto più possibile spersonalizzati, per prendere decisioni. La differenza fra i test antigenici somministrati in farmacia o in un centro diagnostico e quelli autosomministrati sta sostanzialmente nella mano di chi ci infila un cotton fioc su per il naso.
E’ chiaro che il test fai da te non dà una informazione di cui lo Stato possa disporre immediatamente, obbligandoci così alla quarantena. Ma dice all’individuo, che magari è indotto a nutrire qualche sospetto a partire da alcuni sintomi, se è infetto oppure no. Sappiamo da sempre che i contagi sono sottostimati, con Omicron è possibile lo siano ancora di più. Ha senso continuare a non fidarsi delle persone?
Covid-19, ormai dovremmo averlo capito, non sparirà per magia: né dopo questa infornata di norme né dopo la prossima. Dobbiamo conviverci e questo significa necessariamente restituire spazi alla responsabilità individuale. E’ chiaro che un sistema basato sulla disponibilità individuale è e sarà sempre imperfetto. Ma bisognerebbe dimostrare che uno basato sulla continua moltiplicazione di vincoli e divieti, spesso inapplicabili e forse anche per questo ancor più incomprensibili, sia migliore.
L'inefficacia di norme troppo numerose, poco chiare e contraddittorie è ben analizzata da Manzoni nei Promessi Sposi. Anche qui, come nel caso dei prezzi imposti, il legislatore mostra di ignorare la lezione che dovrebbe aver appreso leggendo il romanzo in seconda superiore, preferendo un interventismo di facciata, paternalista e inutile, all'analisi concreta dei costi e benefici, sia economici sia sociali. Dal mio punto di vista di insegnante di lettere, è sconfortante.