Per “sette anni circa”, ogni volta che leggeva un libro su Napoleone e “trovava un pensiero sorprendente”, Honoré de Balzac lo trascriveva “su un libro di cucina che non abbandonava mai la mia scrivania”. In uno dei tanti momenti nei quali gli mancano quattrini, Balzac sfoglia il volumone, trova che sia “il più bel libro dell’epoca” e se ne separa per pochi spicci vendendolo “a un anziano commerciante di maglieria che è un pezzo grosso del suo distretto e aspira ad avere la croce della Legion d’onore e che l’otterrà dedicando questo libro a Luigi Filippo”. La monarchia orleanista (la parentesi più felice della civiltà moderna, per parafrasare Jacob Burckhardt) volle rimpatriare da Sant’Elena i resti di Napoleone. Le Massime e i pensieri di Napoleone curatore un certo signor “J.-L. Gaudy”, poi identificato come Jean-Louis Gaudy, possidente, celibe, nato a Ginevra, escono a Parigi nel 1839, il signor Gaudy muore l’anno dopo (temiamo, senza la Legion d’onore). Solo settant’anni dopo la paternità del volume viene attribuita correttamente anche se il libretto, spiega il traduttore e curatore italiano Carlo Carlino (autore di una magnifica introduzione), verrà ricordato “in seguito solo fugacemente da qualche biografo dello scrittore”.
La raccolta riporta molti pensieri di Napoleone in maniera errata, mentre altri sono di dubbia autenticità e altri ancora appartengono quasi certamente allo stesso Balzac. Il quale nella prefazione avverte: «Agli occhi delle masse questo libro sarà un’apparizione», prima di comporre un altro dei suoi personaggi, o meglio il suo personaggio, quello da sempre ammirato e idealizzato. Perché se Napoleone non aveva pensato di condensare in maniera compiuta e sintetica una dottrina e aveva «così vigorosamente lottato contro le manifestazioni del pensiero», finisce «con l’essere egli stesso un libro».
Carlino cita Alberto Savinio: “Napoleone diventò quello che tutti sanno, ma non riuscì a diventare quello che nel suo intimo desiderava: un letterato”.
Sappiamo che Napoleone annotava con attenzione, scrivendo a margine dei testi fittissime note, Erodoto, Strabone, Diodoro Siculo, Giulio Cesare, e poi Filangieri e l’amato Rousseau. Ma la gloria letteraria, quella non la conquistò mai. Solo il Mémorial de Sainte-Hélène, che dettò al conte di Las Casas, e vide la luce nel 1823, due anni dopo la sua morte, ebbe un notevole successo e tradotto in diverse lingue apparve in numerose edizioni, dilatando la storia vera di un mito vivente. Fu la sua rivincita postuma, il libro che consacrò la sua leggenda. Sappiamo pure che i suoi scritti passarono quasi inosservati. Che né Stendhal, il quale ammirò l’uomo incondizionatamente, né Chateaubriand [che lo ammirava di meno, diciamo così] li apprezzarono. E nemmeno Balzac. Solo Sainte-Beuve si lasciò andare a un giudizio più ponderato: «Quando scrive, Napoleone è la semplicità stessa. E’ un piacere vedere che colui che è stato oggetto di tante frasi, ne abbia scritte di così scarne».
Balzac aveva visto Bonaparte “la tredicesima domenica dell’anno 1813”, durante “la sfilata al Carrousel” (che però, ricorda Carlino, avvenne l’anno successivo), l’ultima parata “di quelle destinate a lasciare il segno nella memoria dei parigini e degli stranieri”. L’Imperatore è “un ometto piuttosto grasso, che portava un paio di pantaloni bianchi e stivali da scudiero” che appare “di colpo, con in testa un tricorno prestigioso quanto l’uomo che lo portava”. “Perfino i muri delle più alte gallerie del vecchio palazzo sembravano gridare: «Viva l’Imperatore»”. La magia che si stabilisce fra l’ometto grasso e la folla, alla quale in pochi riescono a restare immuni, rientra appieno nella più abusata delle categorie: quella del carisma. Ma Napoleone è il mito dei suoi tempi, e anche un po’ dei nostri, perché mai nessuno riuscì a salire tanto in alto in così pochi anni e perché in quarantasei dei suoi cinquantadue anni di vita egli fu davvero il romanzo d’Europa in un solo uomo (“tutto ei provò: la gloria / maggior dopo il periglio / la fuga e la vittoria / la reggia e il tristo esiglio / due volte nella polvere / due volte sull’altar”). Come scriverà Joseph Roth, “dava lustro ai suoi avi, a differenza dei re e degli imperatori per nascita, che il lustro dagli avi lo ricevono”.
Una delle massime napoleonico-balzachiane recita: “una grande reputazione è un grande rumore, più se ne fa più lo si sente: le leggi, le nazioni, i monumenti, tutto cade, ma il rumore resta”. Un perfetto epitaffio.
Di questi 525 pensieri, forse la più parte non è mai uscita dalle labbra di Napoleone, ma tutti avrebbero potuto essere suoi. In essi si mescolano cinismo, scaltrezza, lo spirito dei tempi (lasciamo perdere il cavallo), qualche fulminante intuizione sulla legittimità. C’è molta antipatia per lo spirito di fazione: l’uomo meno libero è l’uomo di partito e “tutti i partiti sono giacobini”. C’è un po’ di psicologia politica spiccia: “si crede solo in ciò che fa piacere credere”. C’è un’ammissione molto franca, mettiamola così, della natura “artigianale” del mestiere della politica come di quello della guerra. Il grande generale è sempre un ciarlatano e, in generale, “i grandi uomini sono sempre degli imbroglioni”. “Un capo è un venditore di speranza”.
Bonaparte, come del resto gli anti-eroi di Balzac, è ben consapevole che “nothing succeeds like success” e lo dice con espressione più “politica”: “il più grande oratore del mondo è il successo”. Sono le vittorie in battaglia che persuadono le reclute ad arruolarsi (“niente ingrossa un battaglione quanto il successo”).
Le massime sulla guerra sono forse le più interessanti, un po’ perché immaginiamo che lo scrittore ci abbia ricamato di meno e un po’ perché potrebbero dirci qualcosa di utile anche oggi, se qualcuno avesse la pazienza di leggere (Monsieur Macron, almeno lei: sono poi una manciata di pagine…). Questa, per esempio: “è l’immaginazione che fa perdere le battaglie”. L’immaginazione dei leader tracima facilmente nell’autoinganno. Da queste pagine emerge il disprezzo più totale non per il ciarlatano in guerra e in politica, perché la guerra e la politica non la fanno uomini d’altra pasta, ma per quello che finisce a credere alla sua ciarlataneria.
Honoré de Balzac, Massime e pensieri di Napoleone (1838), a cura di Carlo Carlino, Palermo, Sellerio, (2001) 2021, pp. 180.