Michael Oakeshott
Oggi, centoventi anni fa, veniva al mondo Michael Oakeshott. Il “più grande filosofo della tradizione anglosassone dai tempi di Mill” è ancora largamente sconosciuto nel nostro Paese. Nel 1985, il Mulino pubblicò La condotta umana, il suo capolavoro, ma era la classica rondine destinata a non far primavera. Più di recente, nel 2013, per la cura di Agostino Carrino, Rubbettino ha pubblicato La politica moderna tra scetticismo e fede. Lo scorso anno è uscito, per IBL Libri, Razionalismo in politica, la raccolta di saggi del 1962 che diede fama internazionale a Oakeshott, tradotto da Giovanni Giorgini, autore di una splendida Introduzione che è la cosa più limpida e densa che possiate leggere su Oakeshott in lingua italiana. Fra parentesi, per me Razionalismo in politica è la cosa più bella che l’Istituto Bruno Leoni abbia pubblicato da quando esiste.
Negli anni Venti Oakeshott aveva studiato storia a Cambridge e lì aveva cominciato la propria carriera, come lecturer per l’appunto in storia. Nella seconda guerra mondiale prestò servizio prima in artiglieria e poi fra i ricognitori del reggimento “Phantom”, lo stesso dell’attore David Niven. Prima della guerra aveva scritto un libro di filosofia nel 1933, Experience and Its Modes (un lavoro di grande complessità che rientra appieno nel filone idealista della filosofia britannica).
Rientrato dal fronte, Oakeshott, dopo un breve passaggio a Oxford, fu chiamato alla London School of Economics.
Occupò la cattedra di scienza politica e a dirigere l’omonimo dipartimento. Prima di lui quello era il pulpito di da Graham Wallas e Harold Laski: l’uno e l’altro fieri “riformatori sociali”, intellettuali impegnati dalla testa ai piedi. Oakeshott stesso, cui non mancava certo il gusto della provocazione intellettuale, come scrive Giorgini scelse “di presentarsi nel tempio del riformismo come ‘uno scettico; uno che vorrebbe far meglio se solo sapesse come’”. L’uomo era di quelli che si sentono serenamente distanti dalle “cose del mondo” ma, come assicurava il suo amico Ken Minogue, fu un perfetto direttore di dipartimento.
Che cos’era, all’epoca, la London School of Economics. Attraeva alcune delle menti più vivaci delle scienze sociali. Ma era anche la fucina nella quale si andava sviluppando un pensiero alternativo al consenso, keynesiano e socialdemocratico, post-bellico. Non solo fra gli economisti ma anche fra i pensatori politici, sui quali la sua influenza si fece sentire. Oakeshott era, secondo Minogue, un “conservatore realista”, come Elie Kedourie e Shirley Letwin, due pensatori a lui affini.
Realismo circa la condizione umana, scetticismo circa la possibilità della politica di darci la felicità o aiutarci a “progredire” sotto il profilo morale.
In Razionalismo in politica, Oakeshott egli delinea due contrapposti stili nell’approccio alle vicende politiche, che s’intrecciano e si contrastano vicendevolmente per tutta la storia dello Stato moderno. Nell’uno, l’attività di governo è necessaria alla convivenza civile ma non è necessariamente “buona”: la sua funzione è ridurre le occasioni di frizioni e conflitti fra uomini. Nell’altro, essa è al servizio della perfezione umana e può arrivare, idealmente, a dirigere ogni azione dei sudditi.
Il suo conservatorismo consisteva nella constatazione dell’esistenza di una propensione, un’inclinazione conservatrice, la quale precede qualsiasi sentimento politico. Questo non significa cercare nel passato un rifugio o rifiutare i cambiamenti a prescindere. Si tratta piuttosto”di una maniera di abituarsi al mutamento, un’attività a cui nessun uomo può sfuggire”. Il conservatore alla Oakeshott apprezza “ciò che è adatto allo scopo” e non vuole sostituirlo con “ciò che è perfetto”, predilige “la gaiezza presente”, limitata e sfuggente che sia, alla “beatitudine utopica”.
Il razionalista, invece, “non ha il senso dell’accumulo dell’esperienza ma soltanto della disponibilità dell’esperienza quando questa sia stata convertita in una formula: il passato ha un significato per lui soltanto perché gli è di ingombro”. Il conservatore oakeshottiano non idealizza il passato ma cerca il bene nel presente e apprezza il passato che l’ha prodotto.
Nelle pagine di Oakeshott più che altrove, c’è qualcosa di rarissimo nelle astrazioni degli intellettuali: una autentica simpatia per gli esseri umani in carne e ossa, per come provano, ciascuno attingendo a quel vasto repertorio di esempi e attività che la società gli mette a disposizione, a forgiare la propria vita, ciascuno in modo manchevole e imperfetto ma, dopotutto, suo.