I comics americani sono talmente centrali nel nostro immaginario, che riesce quasi impossibile ripensare a cos’erano in un’altra epoca. “Giornaletti”, storie a uso e consumo di lettori giovanissimi (che poi con loro sono invecchiati), importati in Italia attraverso rocambolesche avventure editoriali (pensate alle reincarnazioni dei fumetti Marvel, prima di accasarsi con Panini) e anche negli Stati Uniti inseriti in un’editoria minore, che funzionava sulla base di criteri tutti suoi. Walt Disney è il caso a sé di un grande imprenditore che ha creato una casa per la fantasia di milioni di persone - e ne ha tratto profitto. Ma Stan Lee e Jack Kirby, gli inventori di buona parte dei supereroi che oggi sbancano regolarmente il botteghino, erano dipendenti, uno è riuscito a monetizzare i propri sforzi creativi grazie agli adattamenti cinematografici, l’altro si è trascinato in cause lunghe decenni, risoltesi a favore non più suo ma dei suoi eredi.
Il caso di Carl Barks è un po’ a metà. Barks non ha inventato Paperino, il cui debutto risale a un cartone animato, The Wise Little Hen (1934), in cui divideva la scena con il meno fortunato Porky Pig. Barks, che aveva smesso di studiare a quindici anni dopo la morte della madre e la cui unica scuola di disegno fu il corso per corrispondenza di Charles Landon, lavorava negli anni Trenta e Quaranta come gag man per gli studios: non disegnava ma cuciva assieme episodi e scenette divertenti, cercando di farle diventare una storia. Cominciò poi a disegnare fumetti di Paperino, ai quali il suo nome è tutt’ora intrecciato. Nel 1947, Barks inventa a poche settimane di distanza il personaggio di Zio Paperone e quello di Gastone. Si apre così il vero cantiere della sua opera: che non sono tanto le storie di Paperino, quanto la costruzione di una città (Paperopoli) e di un mondo fittizio attorno a Paperino. Un mondo che non poteva stare nello spazio angusto di un “corto” animato e che arriverà sullo schermo solo parzialmente, alla fine degli anni Ottanta con le Duck Tales .
Le storie di Barks attraversano l’Oceano, hanno grande successo in Europa (più che negli Usa, dove i bambini preferiscono i supereroi), i suoi personaggi (da Scrooge McDuck che diventa zio Paperone a Gyro Gearloose che da noi è Archimede Pitagorico e Magica DeSpell/ Amelia la strega) vengono tradotti e nel suo mondo si inseriscono a loro volta altri disegnatori: il Barks italiano è Romano Scarpa, che s’inventa Brigitta (entrambi i cattivi di Paperone, Cuordipietra Famedoro e John Rockerduck, sono di Barks, ma mentre negli Usa piace di più Famedoro in Europa fioccano i fumetti in cui compare il secondo).
Il primo albo dedicato interamente a Zio Paperone (che, spiega in queste interviste, è per Barks un personaggio “facile”: la passione per il denaro fa sì che le sue storie si scrivano da sé, mentre l’identità di Paperino cambia a ogni episodio, sceso dall’amaca può fare qualsiasi cosa) è del 1951, il nome di Barks diventa di pubblico dominio alla fine degli anni Sessanta. Gli andrà meglio che a molti altri cartoonist: di articolo su fanzine in articolo su fanzine, che ci sia Barks dietro a quei personaggi e a quelle storie diventa un fatto noto perlomeno agli appassionati. Nel 1974, per la prima volta Western Publishing, che pubblica su licenza i fumetti dei personaggi Disney, riconosce che ciò che stampa da vent’anni è opera dell’uomo dei paperi, Barks, e di quello dei topi, Floyd Gottfredson. Di lì comincia il percorso che porta Barks dove nessun fumettista è stato prima: nel 1981 esce una monografia dedicata al suo lavoro, la prima di una lunga serie, lui comincia a far soldi vendendo le sue tavole, spuntano come funghi associazioni di fan e le sue storie (che sono uno sproposito, se paragonate con l’assai più parsimoniosa, ma anche più interessante, produzione del suo successore Don Rosa) vengono ristampate in volume.
Questo libro riprende una lunga serie di interviste a Barks, realizzate da appassionati e ammiratori che poi sono diventati anche studiosi dell’universo paperopolesco. Ne esce come elemento chiave un tratto che è comune anche a molte altre grandi carriere: esse vengono, in buona sostanza, guidate dal caso. Le scelte chiave nella vita di Barks dipendono dai suoi demoni privati (non perse mai il vizio di sposarsi), dagli acciacchi di salute, da incontri fortuiti. Il lettore non si aspetti grande introspezione e men che meno una lettura “politica” di paperi, topi e fumetti. Negli anni Settanta, esce un demenziale (dunque, tutt’ora citatissimo) How to Read Donald Duck, opera di Ariel Dorfman e Armand Mattelart, per cui l’universo Disney è una macchinazione della Cia o poco ci manca, Scrooge McDuck è un Henry Kissinger che nuota nelle monete, i comics un tentativo di propaganda di massa che mira a spezzare gli antichi legami comunitari e a produrre un individualismo rampante funzionale al capitalismo statunitense, eccetera. Barks, in quell’opera, viene salvato come una sorta di traditore di classe: un borghese che finisce per ammettere, con Paperone, i mali della borghesia e suo malgrado confessa gli orrori dell’accumulazione. Gli autori non l’avevano mai intervistato. Barks semplicemente è fedele, in modo più o meno consapevole, a una tradizione, che è la nostra, che nello smodato perseguimento della ricchezza vede un problema. Nello stesso tempo, i suoi fumetti riflettono l’idea arci-americana che il duro lavoro sia un valore e che, insomma, un uomo o un papero che si alzino la mattina all’alba pronti a tutto per migliorare la propria situazione non hanno nessuna garanzia di avere successo, ma è più probabile l’incontrino così che rimanendo a poltrire sul divano.
Barks è un artista anche della falsa modestia. Non avrei mai potuto dirigere un cortometraggio, spiega, “ciò richiedeva una conoscenza dell’animazione e della musica che non avevo e un ampio raggio di conoscenze e talenti che mi mancavano”. Scrooge/Paperone è solo “un poveretto” (“Only a Poor Old Man”, si intitola una storia di Barks del 1952), ossessionato dalla necessità di preservare il suo patrimonio che proprio per questo si priva costantemente delle gioie della vita. Barks rivendica il suo “ultra-conservatorismo”, per cui “l’unico tipo di arte che io abbia mai pensato valesse qualcosa erano Prince Valiant e Flash Gordon”. L’inventore di Paperone vanta, insomma, senza complessi d’inferiorità il tratto classico (fumettisticamente parlando) delle sue storie, esagerando la sua antipatia per i fumetti che si prendono sempre sul serio. Ai suoi paperi, questo lo ammette, ha sempre pensato come fossero esseri umani: per Paperone scrive “Only a Poor Old Man”, non “Only a Poor Old Duck”.
La sua visione del mondo è impregnata dalle memorie della depressione e del New Deal, ma soprattutto della vita contadina (per un certo punto, mentre già disegnava paperi, ha allevato polli) che disegna una cornice di valori, per usare un’espressione desueta, anacronistica ma coerente, dove l’antipatia per l’egoismo dei ricconi convive con l’ammirazione per il lavoro duro e il risparmio. In questo, Barks ha fatto di Scrooge l’emblema delle più tradizionali virtù capitalistiche e l’unico profeta del risparmio che sia riuscito a parlare alle masse, in un mondo sempre più indebitato e gioiosamente keynesiano. C’è coerenza nelle sue storie? Il Paperone barksiano talvolta sembra una caricatura impietosa dell’imprenditore e altre volte invece ne esalta le caratteristiche. Bark semplicemente (ammesso che ci sia qualcosa di semplice) raccontava delle storie, non voleva fare sermoni politici, peggio per noi se sentiamo il bisogno di trovarli anche fra le nuvolette.
Donald Ault (a cura di), Carl Barks. Conversations, Jackson, University of Mississippi Press, 2003, pp. 238.