La mia amica Deirdre McCloskey dice sempre che “ci sono un paio di centinaia di economisti che, nelle prime due settimane di ottobre, non si allontanano mai dal telefono”. Quando gli viene annunciato che ha vinto il Premio Nobel per l’economia, invece, Milton Friedman ha altro per la testa. E’ a Detroit. Sta partecipando a un comizio di una campagna referendaria: l’obiettivo è inserire nella costituzione dello stato un limite alla spesa pubblica. Si prepara a trascorrere due ore con un paio di dozzine di persone di cui sa nulla e che gli faranno le domande più improbabili, per convincerle della bontà di un emendamento costituzionale che limiti la spesa.
Stavamo parcheggiando la macchina quando ci siamo accorti di reporter e fotografi che aspettavano fuori la sala conferenze”, raccontano i due attivisti anti-tasse che passarono con lui la giornata. “Ci corsero incontro al parcheggio e cominciarono a scattare foto al Professor Friedman”.
Quand’è ancora al liceo, il giornalino della scuola pubblica un articolo in cui si chiede agli studenti di “immaginare… Milton Friedman che si fa i fatti suoi”. “Potete immaginare un Milty Friedman che non sia preso a discutere?”
Con un po’ di fatica. Discutere è quel che Friedman ha fatto per tutto il resto della sua vita: vuoi fra colleghi (contro Franco Modigliani condusse la “battaglia delle stazioni radio”, così chiamata per le iniziali dei due e dei rispettivi coautori: Ando e Modigliani e Friedman e Meiselman, AM/FM), vuoi con giornalisti e uomini politici. Il suo sport era il tennis e lo praticava con passione anche in aula.
Friedman è stato al tempo stesso un teorico, che se la gioca con pochi altri per il titolo di maggiore economista del Novecento, e un divulgatore così instancabile da essere diventato, a un certo punto, un personaggio pubblico. Gli economisti sono sempre tentati dalla professione vicaria di consiglieri del principe: a cominciare da quel John Maynard Keynes che, costretto a prendere atto della pessima performance dei politici alla conferenza di Versailles, per il resto della vita tentò di indirizzarli in tutti i modi. Ma la classe dirigente inglese era un circolo esclusivo e Keynes ci stava come un fuco nel favo. Le iniziative editoriali per parlare a un pubblico più vasto gli erano comunque funzionali a esercitare pressione sui pochi “decisori”, la sua strategia rivelatasi più efficace fu quella di offrire agli esperti un nuovo linguaggio esoterico: la macroeconomia.
Friedman al contrario era un outsider, il padre aveva lasciato l’Ungheria per gli USA a sedici anni, la madre poco dopo. Raggiunsero col sudore della fronte una posizione di relativa prosperità, il padre fu fra i primi sostenitori della sinagoga della cittadina del New Jersey dove vivevano. Ma per andare all’università Milton dovette superare la diffidenza di atenei dove l’antisemitismo si rifletteva sulle politiche di ammissione e reclutamento.
Friedman ha lavorato per il governo, durante la guerra. Si è prestato a dare consigli anche dopo. La sua carriera è però quella di un accademico puro, che non è mai stato interessato ad altro che a insegnare. S’interseca però con amici e allievi (a cominciare da George Shultz) che portano il “verbo” friedmaniano a Washington e assieme, con la collaborazione a Newsweek, poi con un Nobel molto contestato (per via di un viaggio in Cile due anni prima), infine con la trasmissione “Free to Choose”, con un profilo pubblico che ne fa una celebrità. Nella prima visita ufficiale in Nuova Zelanda, in un’intervista alla radio Margaret Thatcher si sente chiedere “se è una discepola di Milton Friedman”. L’economista di Chicago è stato una celebrity accademica autenticamente internazionale ma la sua fama non era circoscritta ai suoi lavori più tecnici e nemmeno alle opere di alta divulgazione. Si accompagnava all’impressione che le sue parole contassero e avessero il potere di condizionare l’attività di governo. L’equivalente contemporaneo di Friedman è, per autorevolezza e capacità di scrittura, un altro Nobel, Paul Krugman. Anche indipendentemente dalle inevitabili deviazioni delle politiche pubbliche da qualsiasi ispirazione di carattere più generale, il “krugmanismo” però non è sovrapponibile al “bidenismo” quanto lo furono “friedmanismo” e “reaganismo”.
Si capisce dunque che Friedman è una manna per un biografo, e lo è stato per Jennifer Burns, autrice di un gran bel libro, Milton Friedman: the Last Conservative. Il “conservative” nel titolo è stato contestato da Brian Doherty in una recensione su Reason. Friedman, che nel corso della vita si è definito in molti modi da “John Stuart Mill liberal” a “libertarian”, non sarebbe stato un “conservatore”, così come “conservatrici” in senso stretto non furono buona parte delle sue battaglie, dall’abolizione dell’ordine dei medici alla liberalizzazione delle droghe. Una delle idee centrali del libro di Burns, però, è che l’economista di Chicago riesce, in ragione di un eccezionale mix di talenti, a trasformare posizioni eccentriche in pilastri di quel movimento conservatore che, dopo la batosta presa con la candidatura di Barry Goldwater, in sedici anni arriva a espugnare il partito repubblicano (e la Casa Bianca) con Ronald Reagan.
La “nuova destra” cui Friedman aderisce ha alcune caratteristiche che la differenziano dalla precedente: per esempio una propensione “internazionalista”, che la allontana dall’isolazionismo “America First”.
Se con Reagan la consuetudine fu profonda e cementata anche da alcune affinità caratteriali (a cominciare dal senso dell’umorismo), Friedman partecipò come consulente anche alla campagna elettorale di Nixon. A questi Friedman doveva due delle sue vittorie più importanti e una sconfitta che gli bruciò molto: l’abolizione della leva militare e la fine del sistema di Bretton Woods, da una parte, la lotta all’inflazione attraverso i calmieri e non la politica monetaria dall’altra. Se di lì a pochi anni l’arrivo di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve sarà una rivincita, era sul suo predecessore Arthur Burns (nessuna parentela con Jennifer) che Friedman avrebbe scommesso. Burns era stato suo professore e fu a lungo, per Milton, che era rimasto orfano da giovane, una figura quasi paterna. Il suo operato alla guida della Fed costrinse Friedman ad accorgersi che la sua “rivoluzione monetarista”, condotta per vent’anni a colpi di paper scientifici e coronata da un grande studio come la Storia monetaria degli Stati Uniti scritta con Anna Schwartz, aveva cambiato l’approccio di molti ma non quello del collega a cui teneva di più: il suo antico maestro.
Ai tempi di Nixon, Friedman perse con Burns un’altra battaglia, in quest’ultimo caso il non ancora banchiere centrale manovrava da dietro le quinte. Il Presidente aveva in animo di porre mano a una riforma del welfare che si basava proprio su un’idea di Friedman: la negative income tax, l’imposta negativa sul reddito, un sussidio monetario per le persone in difficoltà. Il “Family Assistance Plan” avrebbe centralizzato a livello federale una serie di sussidi dispersi nella finanza pubblica dei singoli stati ma soprattutto avrebbe consentito di presentare domanda anche alle famiglie dove c’era un percettore di reddito, e non solo a quelle dei disoccupati. L’assegno sarebbe stato parametrato alla necessità di raggiungere una certa soglia reddituale. Si sarebbe trattato, appunto, di un aiuto monetario, cash, non di servizi offerti sulla base di un giudizio burocratico su quali fossero i “bisogni” dei poveri. Per Shultz, il problema di legare l’erogazione di un sussidio alla disoccupazione era l’incentivo perverso a quest’ultima: i beneficiari preferivano non cercare nemmeno un impiego, pena il rischio di perdere l’aiuto.
Alla considerazioni di Shultz, Burns opponeva l’idea che comunque l’ampliamento della platea dei beneficiari avrebbe accresciuto la dipendenza da welfare e fiaccato “la fibra morale”. La proposta venne poi ampiamente rivista, abbandonando il proposito di mettere semplicemente del denaro in tasca alle persone. Si sussidiarono invece consumi specifici, a partire da quelli alimentari (food stamp). Friedman immaginò si fosse trattato di una vittoria della lobby agricola e non dello sgambetto di un amico.
Questioni personali a parte (che sono ovviamente il sale di una bella biografia), il dibattito è significativo e si ripropone ancora oggi. E’ evidente che un sussidio monetario sviluppa “dipendenza” e chi lo percepisce viene presto arruolato in un piccolo esercito elettorale pronto a tutto per mantenere quel beneficio. La prudenza suggerirebbe una posizione simile a quella di Burns. Friedman e i friedmaniani ragionano all’interno della cornice del welfare state, presumendo che siccome non se ne può fare a meno tanto vale cercare di farle assumere la forma meno distorsiva possibile. Realismo politico (i governi aggiungono e non tolgono mai, tanto vale non aggiungere) e pragmatismo intellettuale (stante questa situazione, cerchiamo di inserire elementi che ne limitino gli effetti perversi) si scoprono in conflitto.
Dovendo trovare un “tema coerente” alla “vertiginosa serie di proposte” fatte proprio da Friedman, Burns lo trova nel “liberare i prezzi. L’idea è alla base di tutto, dal sostegno di Friedman al buono scuola alla sua campagna per abolire il servizio di leva alla sua insistenza sul fatto che i governi debbono smettere di controllare il prezzo delle loro valute”. A Chicago, Friedman ha prima assorbito e poi sviluppato quella price theory, quel ragionare micro-economico, che lo portò anche a pensare moneta e banche centrali senza mai scambiare gli aggregati per la realtà. Leggendo il libro di Burns, che a tratti pecca di anacronismo, ma nel quale l’autrice dà prova di straordinaria versatilità intellettuale, ci si può trovare in disaccordo col biografato e ogni tanto pensare che la storia gli ha dato, su questo o quel punto, torto. E’ difficile però non subire il fascino di quest’hombre vertical della scienza economica.
Jennifer Burns, Milton Friedman: the Last Conservative, New York, Farrar, Straus and Giroux, 2023, pp. 592.
Bellissimo, grazie prof