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In giorni come questi, è difficile non pensare alla guerra e a che cosa essa significa per una società come la nostra. Benjamin Constant in questo libro sostiene che “La specie umana, incrollabilmente legata alla propria pace e ai propri piaceri, reagirà sempre, individualmente e collettivamente, contro ogni autorità che desideri turbarli”.
Per questo ci risultano così odiose le guerre d’aggressione. Nello stesso tempo, mai come oggi sono lontane dalla nostra esperienza e pericolose per il nostro benessere perché “la guerra non procura ai popoli alcuna fortuna e non è per loro che una fonte di disagi e pene, l'apologia del sistema della conquiste può essere fondata solo su sofismi e imposture”.
La guerra, nota Constant, è sempre nascosta da motivi ideologici e già il filosofo franco-svizzero intuisce la potenza che avrà il motivo nazionale. Si parla di rettificare della “necessità di rendere più uniforme il tracciato delle frontiere, come se questo principio, una volta ammesso, non significasse la fine sulla terra di ogni possibilità di una vita tranquilla e giusta”. Si discute di interessi commerciali, come se “erigere tra sé e gli altri popoli barriere insanguinate fosse di giovamento al commercio”.
Constant ci spiega meglio di chiunque altro perché non abbracciamo la guerra con l’entusiasmo delle società che ci hanno preceduto. Nel mondo moderno chi desideri qualcosa che altri hanno fa bene ad adoperare il commercio, e non la violenza: anche a prescindere da qualsiasi considerazione di ordine morale, è una strada assai meno costosa.
C'è, in Constant, la teoria del commercio che ingentilisce, che risale a Montesquieu, e sono espressi, con forza retorica ineguagliata, motivi che torneranno nel discorso politico degli economisti liberali e in quello degli attivisti che, come Richard Cobden, lavoreranno per l'abolizione dei dazi sul grano in Inghilterra e poi per far correre il libero scambio in tutt'Europa.
Oggi è facile leggere Constant come un falso profeta, un secolo esatto dopo questo libro, dal crollo dell’Europa liberale, scivolata su un piano inclinato di incomprensioni. Ma il suo monito sulla distruzione che la guerra porta con sé, sul suo costo per tutti, è forte e ineludibile, così il suo elogio della resistenza passiva che la società può opporre agli interventi più brutali dell’autorità e della forza dell’opinione pubblica contro l’arbitrio. Per Constant lo spirito di conquista era un anacronismo già all’inizio del diciannovesimo secolo, purtroppo è ancora con noi.
Benjamin Constant, Conquista e usurpazione (1814), a cura di Luigi Marco Bassani, Torino, IBL Libri, 2009, ppp. 268