Ad almeno un paio di generazioni, da bambini veniva suggerito di tenere un diario. Si trattava di un allenamento alla parola scritta. L’esercizio non era tanto e solo quello di annotare eventi, perlopiù insignificanti come quelli che capitano a ciascuno di noi, specie fra i cinque e i tredici anni. Ma di imparare a farlo dando forma sulla pagina ai propri pensieri, lottando con la pigrizia di rimandare a domani quel che si dovrebbe scrivere oggi, provando a fare salire le idee sul trenino dinoccolato della lingua. Personalmente ricordo di non averci mai dedicato grande impegno ma di aver avuto uno di quei quadernetti col lucchetto, nel quale più che altro incollavo cose, ritagli di giornale e magari l’improvvisata testimonianza di qualche stupidaggine che mi sarà sembrata, lì per lì, straordinariamente rilevante.
Non è detto che queste note domenicali debbano sempre scivolare verso la nostalgia, ma forse non era stupida l’idea di far leva sulla naturale tendenza a esagerare la portata di quel che ci capita per condurre le persone a scrivere, o almeno a provarci. Inoltre, un diario serio e ben fatto, cioè il diario di una persona curiosa e che ha presente che ricordare ogni tanto nella vita può rivelarsi utile, è qualcosa di straordinariamente prezioso: racconta gli eventi quasi in presa diretta con un sapore che la distanza attenua. Manca necessariamente la prospettiva d’insieme, che verrà solo col tempo, ma restano dettagli che invece si perdono quando tutti i suoi affluenti finiscono nel grande fiume della Storia.
Nel 1995 Sergio Ricossa pensò di pubblicare parte del suo diario.
Esiste veramente un mio diario autografo, che è circa quattro volte più voluminoso di quello qui stampato. Il libro elimina quasi tutto quanto non riguarda la politica economica, e diventa il diario di un economista, anziché il diario di un essere umano. Ho cercato tuttavia di lasciare all’economista il maggior numero possibile di tracce di umanità.
Ricossa è venuto a mancare, dopo una lunga malattia che ne aveva intaccato molte cose ma non il senso dell’humour, il 2 marzo di otto anni fa. L’Istituto Bruno Leoni ha cercato di ricordarlo ripubblicando alcuni suoi lavori, come ha fatto, per iniziativa di Lorenzo Infantino, Rubbettino. Ricossa è stato il più importante economista liberale del secondo Novecento italiano, che non vuol dire granché perché non c’era molta concorrenza per il titolo, uno studioso raffinato e originale e uno scrittore straordinario. Ricossa amava gli “economisti che sanno scrivere”, caratteristica che ai suoi occhi poteva persino compensare le peggiori idee di John Maynard Keynes, anche perché rientrava lui stesso nel mazzo. La fine dell’economia, del 1986, è un libro geniale, che se fosse stato scritto in inglese oggi sarebbe un saggio di culto. Ho provato a farlo tradurre in spagnolo, con esiti modesti.
Questo Come si manda in rovina un Paese. Cinquant’anni di malaeconomia è un saggio godibilissimo e istruttivo. La struttura è appunto quella del diario: ogni capitolo copre un anno, fra i 17 e i 67 di Ricossa (che era del ‘27). Se la pubblicazione avvenne nel 1995, non è un caso. A chi non c’era sembrerà incredibile ma in molti erano (eravamo) davvero convinti, in quel momento, che qualcosa stesse cambiando, nel senso che la fine della prima repubblica non fosse una formula giornalistica ma implicasse un “cambio di regime”. L’inizio di una transizione verso una democrazia “Westminster”, un sistema fondato sull’alternanza che ci consentisse di superare la prassi dell’utilizzo clientelare della spesa pubblica che era intimamente associato alla proporzionale (perché, come aveva già capito Luigi Einaudi, “in fondo la proporzionale è il trionfo delle minoranze; ognuna delle quali ricatta le altre ed il governo”). La Lega Nord aveva posto la questione settentrionale, Forza Italia la questione fiscale, l’una e l’altra, parenti strette, sarebbero state al centro di qualsiasi dibattito politico in un Paese “normale”.
Con stupore di molti, non prendo il volo per raggiungere lo stormo dei «liberisti» di Berlusconi e fare il rapace fra i rapaci. Ma come, prèdico il liberismo da una vita, e mi permeo prima della terra promessa, che ormai è in vista? Da una vita non riesco a diffondere l’abbicì del liberismo: ogni terra promessa è un miraggio.
Le prime note nel diario risalgono alla guerra (“Un anno fa, vivevo tra le macerie nel cortile del caseggiato distrutto di venerdì 13 da un bombardamento aereo. Ora vivo «lussuosamente» nella baracca di un magazzino di carbone e sono felice. C’è spazio anche per allevare galline”). Le pagine si fanno più fitte quando, diciottenne, annota notizie degli anni della ricostruzione (“Luigi Einaudi governatore della Banca d’Italia: questo sì, è importante. Lo dico, sennò che liberista sarei? Mi sento contento come se fossi la lira. Cioè, come se fossi in buone mani”).
Perse le suppellettili di casa nel bombardamento, persi i sudati risparmi di papà e mamma (in buoni postali fruttiferi!) a causa dell’inflazione, la mia famiglia non ha i soldi per sottoscrivere i nuovi prestiti nazionali della liberazione e della ricostruzione, che sono presentati come un dovere patriottico. Comunque, alla Patria potrei dire: «Abbiamo già dato».
Forse una delle pagine più amare e divertenti è quella che commenta il primo articolo della Costituzione più bella del mondo:
Come si fa a prendere sul serio una costituzione, che esordisce: «L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro»? Giustamente Arturo Labriola, che ha letto Marx, si è rifiutato di votare l’articolo. Il lavoro, se non è sfruttamento, è pena, a parte i pochi privilegiati, che lavorano per il piacere di lavorare. L’esaltazione del lavoro duro è solo di una certa borghesia, per lo più cristiana. (…)
La sinistra chiese un articolo ancora più stupido: «L’Italia è una Repubblica di lavoratori». Toglieva la cittadinanza a bambini, vecchi e benestanti.
I libri di testo per le elementari, «conformi ai programmi ministeriali», continuano a raccontar la favola del contadino, che si sente un re a zappare la sua terra. A mio nonno, che zappò intere colline del Monferrato, non venne alcuna corona: gli vennero le mani di cuoio e un mal di schiena precoce e cronico. La sua terra meritava niente di più dell’amore che si concede a chi ci affama periodicamente, dopo averci chiesto molta fatica.
I primi capitoli andrebbero letti e riletti per mettere un po’ in prospettiva l’Italia di questi anni, che la memoria appiattisce sulle due dimensioni delle epiche elezioni del ‘48, coi particolari ormai inghiottiti nella nebbia dello storicamente insignificante. Invece, con poche parole che servono a sfumare in una battuta riuscita la naturale frustrazione di un ragazzo brillante innanzi a un mondo desolatamente sempre uguale, Ricossa colora di vita, anche agli occhi del lettore di oggi, dibattiti dimenticati (cosa fece e non fece davvero il piano Marshall, il rapporto Hoffman, la politica economica “einaudiana” e le sue difficoltà di farsi intendere da alleati “keynesiani”…). I giudizi su alcune delle figure centrali della storia repubblicana (da Mattioli a Cuccia) sono devastanti.
Nel 1950 Ricossa, studente-lavoratore per necessità, si laurea con Arrigo Bordin, che gli “propone il posto di assistente volontario senza stipendio. Tocco il cielo con un dito”. Per l’Università ebbe sempre un amore profondo, senza mai idealizzarla.
Ultimi esami all’università. Il professore d’inglese parla la lingua che insegna con un tale accento napoletano, che alla fine della guerra non riuscì a farsi capire dai militari alleati venuti in facoltà, né egli capì i militari alleati. Per dono del caso, un nostro studente, indiano d’origine, fece da interprete e se la cavò benissimo. Quando più tardi costui dovette sostenere l’esame d’inglese, il professore si vendicò bocciandolo: «Voi sapete l’inglese pratico, ma vi sfugge lo spirito della lingua».
L’ironia, ma forse meglio sarebbe dire uno scetticismo congenito che rifiuta di prendere troppo sul serio il mondo in generale e la politica in particolare, rende il racconto dei cinquant’anni successivi un viaggio spassoso. Il declino italiano ne esce come tutt’altro che un destino, men che meno l’esito di un incastrarsi di leggi storiche o economiche da cui non si sfugge. Piuttosto, un gran pasticcio, cucinato da una classe politica composta di fessi almeno quanto di furbi e da un ceto intellettuale non troppo diverso.
Fino al novembre 1988, se un amico veniva a trovarci, egli non avrebbe dovuto usare il nostro telefono di casa: era vietato. Ma nessuno conosceva il vincolo, nessuno lo faceva rispettare, e nessuno usciva a cercare un telefono pubblico a gettoni. Nessuno si accorse che l’incredibile divieto cessò a quella data.
E dire che, guardando al presente, quel passato ci sembra un presepe di giganti…
E’ in questo libro che Ricossa dipinge un quadro perfetto dell’economia “mista” italiana, che cito ogni volta che posso e che dunque cito anche qui:
Il vero italiano vede con occhiali Salmoiraghi (Iri), si serve di elettricità della Finelettrica (Iri), guarda film prodotti a Cinecittà (distribuiti dall’Enic e lavorati dalla Cines), ascolta la radio con apparecchi Ducati, programmi della Rai con dischi Cetra e pubblicità Sipra, fuma sigarette del Monopolio, telefona con l’iri, mangia sale del Monopolio, banane del Monopolio, uva di Maccarese, si cura col chinino di Stato, beve acque minerali delle terme statali, va ad Acqui, Castrocaro, Chianciano, Montecatini, Recoaro, Salsomaggiore in alberghi statali, indossa stoffe colorate dall’Arca e lavate con detersivi Eni, affida i risparmi alle banche dell’Iri, gioca al Lotto e al Totocalcio, legge giornali sostenuti dalla pubblicità Iri, Eni, Monopolio, Totocalcio e sostenuti dalle sovvenzioni dell’Ente cellulosa, si lava, si riscalda, cucina e muove l’automobile con prodotti Eni, viaggia con le ferrovie statali, su vagoni Aerfer o Breda, in torpedone con la Cit e la Ciat o con automezzi Alfa Romeo, vola con l’Alitalia, studia in scuole pubbliche, si laurea in università statali, muore in cliniche universitarie o in altri ospedali pubblici (dove probabilmente è anche nato), è sotterrato in cimiteri pubblici.
Sergio Ricossa, Come si manda in rovina un Paese. Cinquant’anni di malaeconomia (1995), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013, pp. 292.
Fantastico.