Hannes Gissurarson è professore emerito di Politica all’Università dell’Islanda. Da anni è impegnato nel tentativo di ricucire un’alleanza intellettuale fra conservatori e liberali. Alleanza che un tempo esisteva auspice la guerra fredda e oggi appare meno salda, ammesso che l’unica categoria e l’altra abbiano ancora un senso. Questo suo ultimo libro prosegue nel progetto. Uno degli obiettivi di Gissurarson è anche quello di rappacificare liberalismo e nazionalismo, quest’ultimo essendo il vero tratto comune delle forze politiche “di destra” che oggi hanno consenso. L’operazione è meno complicata nel contesto scandinavo, sul quale Conservative Liberalism. North & South è una miniera d’informazioni.
Il primo liberale nella galleria di ritratti di Gissurarson non è lo svedese Anders Chydenius, che nove anni prima della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith licenziò un trattatello sul libero scambio. Ma il poeta e politico islandese Snorri Sturluson, che noi conosciamo come autore dell’Edda e che Gissurarson ci presenta come autore dell’Heimskringla, le saghe dei re di Norvegia che sono “soprattutto un avvertimento contro le monarchie”. Snorri, nato nel 1179, era infatti imbevuto di “eccezionalismo islandese”:
L'Islanda era stata colonizzata nell'874-930, soprattutto da norvegesi. Molti dei coloni erano fuggiti dalla tirannia del re norvegese Harold Fairhair, che nell'870 unificò il Paese e istituì un regno, privando i contadini e i capi-tribù di alcuni dei loro diritti tradizionali, inclusi i diritti di proprietà sulla terra. Nelle saghe islandesi, composte principalmente alla fine del XIII secolo, quando il re norvegese stava cercando di trasformare l'Islanda in un suo tributario, i re vengono visti con scetticismo, persino con ostilità.
Il nazionalismo che Gissurarson difende, dunque, è quello di una comunità che il suo mito fondativo nella fuga da un potere regio oppressivo e, in un certo senso, nella riaffermazione di alcuni diritti feudali contro la marea montante dello Stato moderno. “Le istituzioni islandesi medievali hanno diverse caratteristiche peculiari e interessanti; sembrano quasi inventate da un economista pazzo per testare fino a che punto i meccanismi di mercato possono soppiantare lo Stato nelle sue funzioni più fondamentali”, ha scritto David Friedman. Gissurarson le riassume così:
Nell'Isola i coloni fondarono nel 930 un Commonwealth governato dal diritto, ma senza un governo. Ogni anno l'assemblea generale, Althingi, si riuniva per due settimane in estate, decideva sulle controversie e interpretava la legge, dopodiché le sue decisioni venivano pubblicate privatamente. Il Commonwealth aveva solo un funzionario, il Parlalegge, che recitava pubblicamente le norme giuridiche, un terzo di esse ogni tre anni, e forniva consulenza legale. Nell'XI secolo, il cronista tedesco Adamo di Brema parlava con ammirazione degli islandesi, che non avevano altro re che la legge (Apud illos non est rex, nisi tantum lex).
Nell’Heimskringla, Snorri cita il discorso di un contadino, Einar Eyjolfsson di Thvera, risalente al 1024. Il re norvegese dell’epoca, Olav il grasso, chiedeva agli islandesi di lasciargli il controllo di una piccola porzione dell’isola.
"Quindi, se è pur vero che questo re può essere un brav'uomo, come io confido fermamente che sia, in futuro accadrà come è già accaduto in passato, quando c'è un cambio di governanti, che essi si comportino in modo diverso, alcuni bene, altri male. Ma se il popolo di questo Paese vuole mantenere la propria libertà, che ha da quando questa terra è stata colonizzata, allora sarà meglio non concedere al re alcun diritto su di essa”. L'umile contadino esprimeva l'opinione di Snorri secondo cui gli islandesi - che non solo discendevano per la maggior parte da coloni norvegesi, ma che commerciavano principalmente con la Norvegia - dovevano essere amici del re norvegese, ma non suoi sudditi.
Gissurarson applicherebbe volentieri la stessa regola anche all’Unione europea (come fa in conclusione del suo libro). C’è un po’ di teoria dei climi. Le saghe e più in generale la storia culturale dei Paesi nordici gli consentono di riprendere una considerazione di Montesquieu, “se si leggerà la mirabile opera di Tacito sui costumi dei Germani, si vedrà che è da loro che gli Inglesi hanno tratto l’idea del loro governo politico. Questo bel sistema è stato trovato nei boschi”, applicandola alla Scandinavia.
La parte centrale del libro, prima di una discesa nell’attualità che riguarda soprattutto il rapporto con l’Europa (in Islanda, l’attuale governo sta contemplando l’idea di riprendere il processo di adesione che era stato abbandonato nel 2015), Gissurarson si occupa di due figure a noi più vicine. Una è Luigi Einaudi, del quale ha potuto leggere i Selected Economic Essays curati e tradotti per iniziativa di Riccardo Faucci e Roberto Marchionatti. Il politologo islandese presenta con cura la figura di Einaudi, spiega bene a un lettore che nulla sa di lui le ragioni della sua straordinaria e fulminea carriera politica, legge il dibattito con Croce su liberalismo/liberismo indicando negli argomenti di Einaudi un’anticipazione di quelli di Hayek ne La via della schiavitù. Con più diffidenza presenta le idee dell’economista piemontese in tema d’Europa: ne accoglie gli argomenti a favore di un’economia più integrata a livello internazionale, che propizia una più articolata divisione del lavoro. Rifiuta la visione einaudiana dello Stato nazionale, la cui sovranità illimitata all’interno dei propri confini Einaudi vorrebbe sottoporre a una disciplina esterna. Il nostro primo Presidente della Repubblica è il liberale “del Sud” (Europa), di cui si fa cenno nel sottotitolo del libro.
Il liberale del Nord è invece Nicolai Grundtvig (1783-1872), pastore protestante ma anche poeta, storico, polemista danese. Se un viaggio in Inghilterra aveva fatto di Grundtvig un ammiratore di un’economia più liberale, nella quale si stavano scaldando i motori della Rivoluzione industriale, la sua sensibilità religiosa lo portava a temerne i contraccolpi per la coesione sociale (libertà economica più coesione sociale è la ricetta del nazional-liberalismo nordico). Fra le sue proposte la più nota è il programma pedagogico per un “liceo del popolo”, centrato “sull’apprendimento della lingua madre, il danese, e la storia della madre patria, la Danimarca (…) fondato primariamente sulla comunicazione orale e l’interazione, sulla parola vivente, e non sui libri”. Si tratta di un’agenda effettivamente nazionalista, e nazionalismo e istruzione pubblica sono andati di pari passo, con la seconda che si è sovente prestata a preparare bravi soldatini per lo Stato. Il pastore Grundtvig immaginava una scuola rigorosamente laica: “l’umano viene per primo, e il cristiano dopo/ dacché questo è il vero ordine della vita”. Secondo Gissurarson, il “rinascimento nazionale” auspicato dal pastore portò allo sviluppo di tutta una serie di iniziative filantropiche, in Danimarca, con l’obiettivo di accompagnare e mitigare l’industrializzazione. Tali istituzioni sarebbero poi confluite nello Stato sociale. Negli anni Trenta, alcuni osservatori sostennero che il nazi-fascismo non attecchì a Copenhagen proprio grazie alla lunga semina di Grundtvig.
Vale la pena citare altri due tratti di questo pensatore, che ne fanno per Gissurarson il massimo campione del “nazional-liberalismo”. Il primo è la sua idea di nazione. Che, in parte, e questo non stupisce, è fondata sulla lingua. Ma è pure, in parte, vicina all’idea che poi verrà espressa da Ernest Renan, di nazione come plebiscito vivente. “Di un popolo sono tutti membri / coloro che si considerano tali/ quelli la cui lingua madre suona più dolce / e che la patria amano molto”.
Mettere insieme l’una e l’altra cosa è meno facile di quanto Gissurarson sembri credere. Renan scrisse che “se sorgono dei dubbi su dove siano i confini nazionali, si interroghi la popolazione del territorio disputato. Essi hanno il diritto a esprimersi sul tema”. Questa però è una posizione difficile da classificare come “nazionalista”. L’integrità e l’indivisibilità di un certo territorio, al quale corrisponderebbe uno specifico carattere culturale, sono sempre un motivo ricorrente della politica e ancor prima del sentimento “nazionalista”. La corrispondenza fra comunità culturale e unità politica non ammette che vi si sottraggano coloro che, a un certo punto, non si identificano più con l’una o con l’altra. Se così fosse, se i nazionalisti pensassero gli Stati nazionali come unioni di individui e territori che stanno con chi vogliono stare, e che quindi possono anche decidere di non starci più, la storia degli ultimi due secoli sarebbe differente.
Il secondo elemento rilevante ha invece a che fare con la concezione di Grundtvig della libertà e segnatamente della libertà di parola. “Libertà per Loki ma anche per Thor”, chiedeva il pastore danese, cultore della mitologia nordica, ovvero “libertà di parola anche per coloro le cui opinioni sono impopolari o appartengono a una minoranza sparuta”.
Questo rispetto per la libertà di tutti verrebbe ai nordici dall’essere “gente indipendente”, sarebbe innervato nelle loro tradizioni e nella loro storia sociale, e mal si adeguerebbe a un’Europa continentale dove l’indipendenza personale è un valore assai meno spiccato. Indipendentemente dalle deduzioni sul nostro presente, questo di Hannes Gissurarson è un libro che si legge con facilità, imparando qualcosa su una tradizione che conosciamo poco (almeno io) e che sarebbe bello conoscere di più.
Hannes H. Gissurarson, Conservative Liberalism, North and South: Grundtvig, Einaudi and Their Relevance Today, Bruxelles, European Conservatives and Reformists Party, 2024, pp. 240.
"...Montesquieu, “se si leggerà la mirabile opera di Tacito sui costumi dei Germani, si vedrà che è da loro che gli Inglesi hanno tratto l’idea del loro governo politico. Questo bel sistema è stato trovato nei boschi”, applicandola alla Scandinavia."
Vabbè...qui veramente esageriamo, Mingardi! La Germania di Tacito, il libro prediletto di Hitler...in un commento su liberalismo e libertà...dajje a épater le bourgeois, ma...noi liberali preferiamo lo sceriffo Will Kane di High Noon
Ovviamente ... è Wittgenstein!