Negli scorsi anni, l’espressione “capitalismo con caratteristiche cinesi” ha avuto sorprendente fortuna. L’impatto, nel nostro discorso pubblico, è stato notevole. Le élites occidentali hanno presa per buona la tesi, che semmai avrebbe dovuto esser cara al Partito comunista cinese, che quest’ultimo fosse finalmente riuscito - dopo tentativi tragici, come il grande balzo in avanti - a indirizzare lo sviluppo nella direzione voluta. Messe davanti al primo caso nella storia di regime socialista che riesce ad assicurare benessere diffuso e crescente, pur in un Paese talmente grande e sfaccettato che è inevitabile che qualcuno rimanga indietro, le chattering classes europee hanno prima gridato al miracolo, poi si sono adoperate per replicarlo in casa propria. Guardando non agli spazi di libertà che i produttori e consumatori cinesi si sono faticosamente guadagnati negli anni, ma alle forme di pianificazione praticate dal Partito, ai conglomerati pubblici, alla cornucopia di imprese statali e semi-statali. Solo il libro di Ronald Coase e Ning Wang, ovvero uno dei più grandi economisti del secolo e un suo collaboratore che è nato e si è formato in Cina, ha provato a raccontare una storia diversa - e s’intitola, non a caso, Come la Cina è diventata un Paese capitalista. Una delle considerazioni fondamentali di quel libro è che la Cina comincia ad avviarsi sulla strada della crescita solo quando smette di criminalizzare l’attività economica privata. “Criminalizzare” non nel senso di considerare biasimevole qualcosa, ma proprio di considerare un comportamento meritevole di sanzione penale.
Nel 1978, Yan Hongchang era un contadino dello Stato, come la maggior parte degli abitanti di Xiaogang, il suo piccolo villaggio nella provincia di Anhui, nel nord della Cina. Tutti erano poveri e, anche se l'agricoltura era l'attività economica dominante, molti erano cronicamente malnutriti (...) Così, dopo l’ennesimo misero raccolto, alcuni uomini si riunirono segretamente nella casa di un contadino per discutere un nuovo (in realtà, antico) modo di coltivare la terra. Avrebbero diviso la terra coltivata collettivamente e le singole famiglie avrebbero preso le loro decisioni su come gestire particolari pezzi della fattoria collettiva. Ogni famiglia avrebbe avuto una quantità di raccolto che avrebbe dovuto consegnare allo Stato come di consueto, ma tutto quel che eccedeva lo avrebbe potuto tenerlo per sé e farne ciò che voleva.
A dei giornalisti statunitensi, nel 2012, uno dei contadini spiegò che, per descrivere il rischio che comporta la coltivazione di propria iniziativa per il proprio vantaggio, usavano l'analogia con “un cavo ad alta tensione”, anche se nessuno nel villaggio ne aveva mai visto uno. Fecero un accordo, oggi esposto in un museo del loro paese, in cui si impegnavano non solo a lasciarsi reciprocamente i frutti del proprio lavoro, ma anche a prendersi cura dei figli di chi, tra loro, fosse stato catturato e imprigionato o giustiziato.
Nel momento in cui un Paese di quasi un miliardo di abitanti (all’epoca) smette di fare cose simili, non può che liberare energie creative che erano state a lungo compresse. Evan Osborne, professore di economia alla Wright State University, con il suo Markets with Chinese Characteristics. Economic Liberalism in Modern China si chiede che ruolo abbia giocato in quel processo la “traduzione” cinese di idee e principi liberali. Osborne non si chiede se esistessero nella tradizione cinese dei ganci a cui appendere una cultura più favorevole alla crescita. Non considera Lao-Tzu “il primo libertario”, come talora è stato fatto con una buona dose d’anacronismo, e men che meno ha una visione favorevole del confucianesimo.
Bruno Leoni, per esempio, era convinto che Confucio avrebbe potuto “essere facilmente ammesso come membro della Mont Pèlerin Society”.
Il punto di partenza di Confucio nella sua teoria della società era sicuramente e decisamente individualista. Ma ciò che non è meno importante da un moderno punto di vista liberale è che fu lui a formulare per la prima volta nella storia il principio di “reciprocità” tra i comportamenti degli individui che possono in questo modo garantire la propria libertà in modo efficiente, e che potrebbe essere chiamato la “regola d’oro” di ogni società liberale.
Confucio non è arrivato al punto di dire che bisogna amare i propri vicini come si ama se stessi (un compito davvero difficile per quanti non sono santi), ma ha mantenuto (in quel perfetto stile confuciano, razionalista e utilitaristico, che venne giustamente evidenziato ai giorni nostri da Max Weber) che il principio fondamentale per una società felice è «non fare agli altri ciò che non vorresti venga fatto a te stesso» (Dialoghi, XV, 23).
Al contrario, Osborne stima che il pensiero cinese fosse tendenzialmente illiberale e collettivista e sottolinea come in esso prevalesse un'attitudine “passiva” nei confronti degli eventi, che inibiva gli slanci volti a modificare la realtà: sia dal punto di vista politico che da quello dell’iniziativa individuale. Perciò reputa che il liberalismo economico sia stato sostanzialmente una “importazione” e ne segue la diffusione in Cina a partire dal Trattato di Nanchino, che chiuse la prima guerra dell’oppio nel 1842. Quel Trattato, col quale ovviamente gli inglesi vincitori estorsero abbondanti privilegi ai cinesi sconfitti, mise fine al “sistema di Canton”, l’apparato monopolistico che intermediava i commerci con l’Europa, creando degli spazi aperti ai commerci con il, e alle idee del, mondo occidentale. Il quale ogni tanto li controllava direttamente.
Secondo Osborne, le fortune (modeste) del liberalismo economico nella Cina della seconda metà dell’Ottocento e dei primi del Novecento sono dovute al desiderio dei cinesi di apprendere come si reggesse l’Inghilterra che li aveva sconfitti. Se agli osservatori occidentali la Cina della dinastia Qing appariva una burocrazia ingestibile, per un certo periodo tanto costoro quanto i cinesi pensarono che un po’ di liberalizzazione economica fosse ciò di cui il Paese aveva bisogno. Osborne sostiene che le idee liberali, dopo una prima ricezione positiva, divennero vieppiù impopolari fra il 1927 e il 1949. Guardacaso all’epoca proprio da Occidente venivano altre melodie. Nel 1949, ovviamente, l’ascesa di Mao pose fine a qualsiasi squittìo di libertà economica e di una progressiva “apertura” del Paese si può parlare soltanto con Deng, a fine anni Settanta. L’avvento del comunismo portò alla “completa distruzione del liberalismo economico fuori dalle biblioteche”: Osborne racconta infatti come il fervore marxista portasse i cinesi a tradurre e studiare Smith, Say, Ricardo e anche gli austriaci Böhm-Bawerk e Hayek. Per citare Sun-Tzu, “conosci il tuo nemico e conosci te stesso”. Sfortunatamente non ci sono prove, o perlomeno Osborne non le produce, circa un eventuale legame fra questa conoscenza libresca dell’economia liberale e le successive riforme di Deng.
Il libro è una miniera di informazioni, forse non sempre ben organizzate. Dopo la fine del sistema di Canton, secondo Osborne l’influenza occidentale riuscì a “socchiudere”l’economia cinese. Non è sorprendente che alcune idee, nel momento in cui erano percepite come un’importazione coatta, fossero accolte con ostilità. I mercanti inglesi avevano portato in Cina soprattutto l’oppio, causando una tremenda dipendenza di massa. Per il nazionalismo cinese fu poi simbolicamente importantissima la distruzione di tutte le piantagioni di oppio, decretata da Chiang Kai-shek. Nondimeno, nella Cina di fine Ottocento come in quella di oggi un po’ di apertura compie la sua solita magia: cioè consente creazione di ricchezza e miglioramento degli standard di vita. In pochi anni, Shanghai diventò un vero centro del commercio internazionale. I porti dei trattati e le concessioni straniere in Cina videro una rapida modernizzazione delle infrastrutture e un altrettanto rapido aumento della popolazione. Altri indicatori (per esempio l’altezza media) suggeriscono una robusta crescita del livello di benessere.
Qualche studioso cominciò ad avvicinarsi alle idee del “nemico” non solo per carpire il segreto del suo successo ma anche per comprenderne la logica interna. Siccome si trattava, anzitutto, di un tradurre, di costruire un lessico compatibile con le nuove idee e di adattare di queste ultime alle sensibilità cinese, non è sorprendente che a farsene carico sia stato in primis un teorico della traduzione, Yan Fu. Per smentire l’ipotesi che questi, al pari della maggioranza dei suoi contemporanei, fosse interessato al modello “occidentale” solo perché impressionato dalla superiore efficienza tecnologica, Osborne cita il modo in cui scelse di rendere “libertà” in cinese. Non ziyou, che avrebbe una sfumatura negativa ed egoistica (“emanante dal sé”) ma ziyao il cui secondo carattere, foneticamente pressoché identico, significherebbe “metodo, ragione o processo”. La sua traduzione di “libertà” richiamava l’ “auto-realizzazione”.
Yan Fu comprese il valore della concorrenza. Ciò emerge “non dai suoi commenti o dalla sua traduzione della Ricchezza delle nazioni ma dalla sua traduzione de The Study of Sociology” di Herbert Spencer. In un saggio, Yan sostenne che “il progresso può non conoscere fine, e gli arretramenti economici possono essere solo temporanei, unendo le prospettive di Smith e Spencer. Dunque Yan comprese l’importanza e le fonti del dinamismo”.
In un Paese così vasto e popoloso, la libertà di movimento si rivela centrale, per pervenire a una migliore allocazione dei fattori produttivi.
Durante la prima grande ondata di liberalizzazione economica tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, i cinesi raggiunsero una mobilità di residenza e di status sociale senza precedenti. Ma dopo il 1949, lo sforzo di limitare la libertà di movimento si ampliò in modo sostanziale (...) Dal 1957 (...) ogni famiglia e i suoi singoli membri alla nascita venivano classificati come urbani o rurali (...) la popolazione rurale doveva produrre cibo e la popolazione urbana doveva consumarne una parte, producendo al contempo altri beni e servizi. (…) L'allentamento di questi vincoli dopo il 1978 è stata una delle riforme economiche liberali più importanti, anche se è fra le meno apprezzate.
Solo nel 2019 è stata annunciata l’abolizione di ogni restrizione alla migrazione nelle città (tranne che per i 13 centri più grandi). Tanto stringenti erano i vincoli (il razionamento del cibo è stato depennato ufficialmente solo nel 1992) che la loro rimozione non poteva che avere un effetto tappo di champagne.
Osborne non si avventura in previsioni sul futuro. La liberalizzazione dell’economia è più volte finita sotto accusa, da parte del Partito, per motivi ovvi. Nel 1992, ci volle il viaggio di Deng nelle città costiere per riannodare i fili di un percorso di riforma che sembrava destinato a interrompersi. Osborne non trova, nella leadership cinese contemporanea, alcuna figura paragonabile. Essendo diventata “una nazione che gioca un ruolo geopolitico tanto più grande [che in passato]”, la Cina oggi “subordina l’attività economica privata a considerazioni di carattere geopolitico”. Per questo “il modo nel quale si ragiona sul futuro del liberalismo economico in Cina non è nel segno di una profonda dedizione teorica come poteva essere nell’Inghilterra del XIX secolo. Invece, l’attività economica privata è intesa come uno strumento per preservare e, quando possibile, accrescere gli standard di vita cinesi”. L’integrazione nell’economia internazionale ha rafforzato la liberalizzazione interna, dimostrando che quest’ultima era conveniente. A giorni alterni, gli americani sembrano fare di tutto per stuzzicare il Paese del Dragone e portarlo ad abbandonare la strada della globalizzazione. Per ora, almeno, i cinesi resistono e sono fra i pochi a dichiararsi affezionati all’idea di un commercio il più possibile libero. Posizione che hanno abbracciato perché le “idee hanno conseguenze”: non quelle liberali, la cui diffusione resta limitata, ma le altre, che hanno generato disastri difficili da dimenticare.
Evan W. Osborne, Markets with Chinese Characteristics. Economic Liberalism in Modern China, Vancouver, Fraser Institute, 2024, pp. 290.
Sempre istruttivo: grazie.
Deng è il più grande anarco capitalista che sia mai esistito