“L’uomo vive di abitudini, ma vive per la tensione e l’eccitazione”. Per parafrasare Pascal, tutta la follia degli uomini deriva da una sola causa: non essere capaci di guardarsi allo specchio. Nel suo ultimo libro, The Fatal Conceit (all’Istituto Bruno Leoni stiamo lavorando su una nuova traduzione italiana), F.A. Hayek ci ha ricordato che la civiltà coincide precisamente con quelle regole che pongono vincoli ai nostri istinti innati. Tali istinti sono l’eredità di prassi che tenevano insieme i piccoli gruppi nei quali noi ci siamo evoluti, li mantenevano coesi, facilitavano la cooperazione in quel contesto. Sono però controproducenti per la cooperazione su lunga distanza, all’interno di gruppi umani composti non da decine, ma da milioni di persone. I piccoli gruppi “funzionano” infatti se e solo se c’è condivisione non tanto sui mezzi, ma sui fini: una grande società è per definizione uno spazio nel quale gli individui possono perseguire ciascuno i propri obiettivi.
Questi istinti non scompaiono affatto, al limite vengono “compressi” e, come Hayek spiega benissimo, sono in realtà alla radice di molte delle posture ideologiche della modernità: tradizioni di pensiero che in alcuni casi idealizzano apertamente le virtù del buon selvaggio e la sincerità delle relazioni e delle abitudini della vita all’interno di piccoli gruppi umani tendenzialmente autarchici e che anche quando non lo fanno, però, rispondono anzitutto alla necessità di razionalizzare alcuni impulsi. Chi, quando dice che la società aperta è “fragile”, sa cosa sta dicendo, vuol dire questo: “naturalmente” noi tutti siamo spinti nella direzione opposta a quella di un ordine basato sulla cooperazione volontaria, sullo scambio e anche sull’accettazione reciproca delle differenze e sulla pace.
Questa raccolta di scritti di William James (1842-1910), fratello dello scrittore Henry James, filosofo e psicologo di straordinario rilievo, punta nella stessa direzione. Nella sua bella Introduzione, Antonello La Vergara ricorda una lettera del 1898 (una selezione della corrispondenza di James su questi temi si trova anche in appendice):
La civiltà, propriamente detta, potrebbe essere definita come l’organizzazione di tutte quelle funzioni che resistono alla mera eccitazione dello sport. Ma l’eccitazione! Non adoreremo forse l’eccitazione? In fondo, a che servirebbe la vita, se non fosse per le opportunità e le eccitazioni? L’eccitazione fa apparire terribilmente smorto e insipido ogni monotono moralizzatore.
James, come il suo contemporaneo Herbert Spencer, vede l’evoluzione come una navigazione verso istituzioni sociali nelle quali il peso della coercizione e della violenza si affievolisce. Al pari di Spencer, coglie benissimo l’importanza che ha avuto la guerra nel corso del processo evolutivo: come catalizzatore di energia, desiderio di azione, sviluppo scientifico, capacità organizzativa. La guerra fu “la cruenta nutrice che insegnò la coesione alle società”. Proprio per questo, essa si è incistata negli esseri umani, corrisponde perfettamente a quella smania di eccitazione che stempera la lucidità e riduce la capacità di lettura degli eventi. L’uomo vive di abitudini, ma vive per l’eccitazione. “L’eccitazione periodica è l’unico sollievo dal tedio dell’abitudine. Da tempo immemorabile le guerre, specie per i non combattenti, sono state la forma più eccitante di tensione”.
Quell’inciso, specie per i non combattenti, è da sottolineare mille volte nel mondo nel quale viviamo. Un mondo nel quale social e media tradizionali hanno trasformato la guerra in un grande videogioco di massa, che consente esplosioni di irrazionalità collettività, forme di tifoseria le più bieche, che si consumano letteralmente su cadaveri che hanno perso ogni materialità: sono “immagini”, sono storie nel senso che questa parola ha su Instagram, flash di pochi secondi fra la ricetta del ciambellone, un panda che rotola nell’erba e una minigonna vertiginosa, quanto basta per schiacciare un cuoricino, per rimbalzare l’immagine agli amici. Cioè per sentirci bene con noi stessi in quanto “impegnati” in una trincea immaginaria, che ha il grosso vantaggio di non avere nulla in comune con quelle vere.
Leggere James ci fa capire quanto tutto questo sia desolatamente inevitabile. L’uomo moderno “ha ereditato dai suoi antenati tutta la bellicosità innata e tutto l’amore della gloria”.
Mostrargli l’irrazionalità e l’orrore della guerra lo lascia indifferente. Proprio gli orrori ne fanno il fascino. La guerra è la vita forte, la vita in extremis; le tasse di guerra sono le sole che gli uomini non esitano mai a pagare, come dimostrano i bilanci di tutte le nazioni.
La storia è un bagno di sangue. L’Iliade è un lungo resoconto delle uccisioni compiute da Diomede e Aiace, Sarpedonte ed Ettore. Non ci viene risparmiato nessun particolare sulle ferite da loro inferte, e lo spirito greco godeva del racconto. La storia greca è un panorama di nazionalismo e imperialismo esasperati: la guerra per la guerra, i cittadini tutti guerrieri. Lettura orribile, per l’irrazionalità totale che vi domina, se si eccettua lo scopo di fare la “storia”, e la storia è quella della completa rovina di una civiltà che nelle opere dell’intelletto è forse la più elevata che la terra abbia mai visto.
Non bastano, purtroppo, le più straordinarie opere dell’intelletto a spegnere gli istinti. Di qui la “personale utopia” di James, un equivalente morale della guerra, ovvero un tentativo di costruire la medesima tensione, la medesima coesione, attorno a uno “stabile sistema morale dell’onore civico”. “Finora la guerra è stata la sola forza capace di disciplinare un’intera comunità e, finché non viene stabilita una disciplina equivalente, credo che la guerra continuerà inevitabilmente a tenere il campo”. L’idea è quella di una “coscrizione di tutta la popolazione giovanile” per un certo numero di anni, volta non alla preparazione contro la guerra ma alla lotta contro la natura. “Non c’è nessun motivo di indignazione nel semplice fatto che la vita sia dura, che gli uomini debbano faticare e soffrire dolori”. Ma ad alcuni tocca in sorte “solo una vita di lotta e ad altri solo una vita di agio indegna di un uomo”. Col sistema di James
La nostra gioventù dorata verrebbe arruolata e mandata a lavorare nelle miniere di carbone e di ferro, sui treni merci, sui pescherecci invernali, a lavare piatti, indumenti e finestre, a costruire strade e scavare gallerie, nelle fonderie e nelle caldaie, e sulle impalcature dei grattacieli. Ognuno sceglierebbe dove andare. Ogni residuo infantile verrebbe eliminato e tutti farebbero ritorno in società con più sani sentimenti di simpatia e idee più equilibrate. Avrebbero pagato il loro tributo di sangue, fatto la loro parte nell’eterna lotta dell’uomo con la natura, calpesterebbero questa terra con maggiore orgoglio, le donne li terrebbero in più alta considerazione, sarebbero padri migliori e migliori maestri delle generazioni future.
L’utopia di James è suggestiva quanto irrealizzabile. La sua grande lezione è soprattutto quella di provare a guardarci allo specchio - e farlo bene, prima di invaghirsi di qualche schema ideologico e di una serie di slogan che abbiamo imparato a ripetere. Siamo aggressivi, eccitabili, spesso infantili, indifferenti all’umanità e alla vita altrui quando non ci vengono condite con quella propaganda che ha tanto successo, proprio perché solletica la nostra aggressività (se possibile, per procura), la nostra eccitabilità, il nostro infantilismo. E’ normale: siamo umani.
William James, L’equivalente morale della guerra e altri scritti, Introduzione, traduzione e cura di Antonello La Vergara, Pisa, Edizione ETS, 2015, pp. 176.
detto bene... "le tifoserie più bieche"... attualissimo