Siccome le lingue sono fatte per rappresentare, in qualche modo, la realtà esterna, esse rifletteranno i rapporti di potere presenti in una certa società. Messa così, sembra una cosa talmente ovvia che neppure merita di essere discussa. Tutto il discorso sul linguaggio inclusivo ruota, in buona sostanza, attorno a tale assunto. “Le parole sono importanti” e finiscono per stratificare una certa struttura sociale, pietrificando i rapporti di forza fra diverse categorie di persone. Tutto è potere, incluso il genere grammaticale. Per raddrizzare le cose, bisogna cominciare dal fare pulizia nelle pagine del dizionario. La giustizia sociale verrà solo dopo la giustizia linguistica.
Yasmina Pani è un’insegnante di lettere col gusto della polemica e l’ambizione, commendevole, di essere una sorta di influencer delle humanities. Questo suo libro concentra riflessioni di segno contrario a tutto ciò che ascoltiamo quotidianamente sul “linguaggio inclusivo”. Il punto cruciale mi sembra il seguente: il genere grammaticale non è una invenzione politica “sovrapposta” alla lingua, ma è una caratteristica che si è sviluppata per ragioni legate alla funzione della lingua stessa, ovvero consentirci di comunicare e intenderci gli uni con gli altri.
La letteratura scientifica è concorde nell’affermare che il genere grammaticale ha primariamente a che fare con l’accordo. L’accordo è quello strumento attraverso cui noi rendiamo evidente quali parole sono riferite ad altre, nel nostro discorso: è il motivo per cui, quando abbiamo un soggetto singolare (il cane), abbiamo anche un verbo singolare (abbaia); nello stesso modo, se abbiamo un nome maschile (il cane) avremo anche un aggettivo maschile (rabbioso).
Detto in altri termini: il motivo per cui abbiamo il genere grammaticale non è far capire al nostro interlocutore che il cane è di sesso maschile, ma permettergli di capire che quando diciamo rabbioso ci stiamo riferendo al cane e non alla bambina, per esempio.
Quando si vuole affrontare il tema del genere grammaticale, è questo l’approccio migliore: considerare cioè il genere come una questione di classi morfologiche usate per l’accordo, basate quindi su ragioni sintattiche. Non, quindi, classi di parole formate in base al sesso dei referenti, ma classi di parole formate in modo tale da poter concordare con esse aggettivi, articoli, pronomi e verbi.
Il saggio di Yasmine Pani attinge a studi di linguistica storica, per dimostrare - per esempio - che se il non marcato (cioè la forma che rappresenta l’opzione di default) è maschile, lo è non per “sessismo” ma “perché è stato dall’inizio il genere di base per i referenti animati”. Il maschile plurale, in italiano, “è una convenzione grammaticale e come tale è sempre stata vissuta”. Il fatto che oggi tendiamo a leggere in questa considerazione qualcosa d’altro è, per così dire, un problema nostro: dice molto sulla società nella quale viviamo, suggerisce l’importanza che hanno assunto alcune preoccupazioni, riflette e forse anticipa persino mutamenti sociali. L’invito è a mescolare con cautela politica e linguistica, che sono cose diverse e tali debbono rimanere.
Pani presenta alcuni esempi, a dire il vero abbastanza esotici, di lingue che usano il femminile come default e che non per questo rivelano società matriarcali o particolarmente egualitarie. Il centro del suo argomento è che le lingue si evolvono in un certo modo non per “decisioni consapevoli dei parlanti di selezionare una variante rispetto a un’altra”, ma spontaneamente. Le abitudini che si consolidano col tempo hanno più o meno fortuna sulla base del loro successo nel soddisfare due obiettivi: la precisione del linguaggio e il suo uso più economico e parco.
E’ vero che le lingue cambiano continuamente e proprio come mutano le parole, ne prendiamo a prestito e qualche volta ne arrabattiamo assieme di nuove, andando al rimorchio dell’evoluzione delle tecnologie ma anche dei fatti sociali, così possono imporsi nuove mode e nuovi usi. A cominciare da formule che personalmente trovo quanto di più irritante, come l’ormai ubiquo “care e cari”. Però Pani è convinta che il linguaggio inclusivo, quello che vuole convincerci all’uso della schwa, “una soluzione in cerca di problema”, sia patrimonio di pochi e in realtà più lontano di quanto appaia dal “parlato reale”. Più che in altre occasioni, stavolta forse è il caso di porre davvero la questione in termini di élite versus popolo. L’auspicio dell’autrice di questo saggio tanto polemico quanto ben strutturato è chiaro: “se è vero che la lingua è di tutti, non potrà allora essere decisa da un pugno di attivisti con molto tempo libero”. Amen.
Yasmine Pani, SCHWA: una soluzione senza problema. Scienza e bufale del linguaggio inclusivo, Cagliari, Ediuni, pp. 100.