Nils Melzer è un professore di diritto internazionale all’Università di Glasgow ed è stato a lungo Rapporteur del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Uniti.
Chiunque può trasmettere accuse di violazione del divieto di tortura e maltrattamento al relatore speciale sulla tortura o, come recita il mio titolo completo, al “Rapporteur speciale delle Nazioni Unite sulla tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”. Le richieste di intervento possono essere presentate in qualsiasi momento, tramite lettera o e-mail, anche prima che si sia verificata una violazione e indipendentemente dal fatto che siano stati avviati rapporti di polizia, procedimenti giudiziari o altre formalità.
E’ così che Melzer riceve, a fine 2018, la richiesta d’interessarsi del caso di Julian Assange. Da principio, storce il naso: “Assange, il vile stupratore che si rifiuta di consegnarsi alle autorità svedesi. Assange, l'hacker e la spia che si sottrae alla giustizia nell'ambasciata ecuadoriana. Assange, lo spietato narcisista, traditore e bastardo, eccetera”. Questo libro è il racconto della revisione di un giudizio: di come Melzer comprende che le condizioni di Assange all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra (dove passa sette anni) sono tutto fuorché quelle di uno che “ha fatto due bei figlioli” con tutta serenità. Serve un cinismo spietato, e la certezza di avere a che fare con interlocutori che si bevono qualsiasi cosa, per dire, come pure è stato fatto, che Assange ci sia finito “di sua volontà”. E’ chiaro che “qualsiasi perseguitato politico chiede asilo ‘volontariamente’. Tuttavia, se il luogo di asilo misura solo pochi metri quadrati, che non può lasciare senza esporsi al rischio di gravi violazioni dei diritti umani, allora la sua situazione equivale indiscutibilmente a una privazione della libertà”.
Se Assange deve chiedere asilo all’Ecuador, è a causa dell’accusa di stupro da parte di due donne svedesi. Il reato contestatogli è quello di aver avuto rapporti sessuali non protetti e di essersi successivamente rifiutato di sottoporsi a un controllo medico sulle malattie sessualmente trasmissibili. Le due ragazze sono militanti politiche che lo ospitano e che hanno ripetuti rapporti consenzienti con lui.
La tesi di Melzer, che documenta con la meticolosità del professionista del diritto tutti i movimenti di Assange in quello sventurato viaggio in Svezia, è che si tratti di una montatura: il tentativo di screditare, attingendo al più scontato repertorio degli scandalosi anglosassoni, quello sessuale, un personaggio che dal niente era diventato un mito per parte dell’opinione pubblica internazionale. Per anni l’indagine svedese non fa “progressi significativi” anzi si evita che essa vada “oltre la fase preliminare. Ciò era particolarmente conveniente perché, in assenza di un'incriminazione formale, le autorità svedesi potevano continuare a dipingere pubblicamente Assange come ‘sospettato di stupro’ senza dover rivelare le proprie prove e sottoporre le proprie accuse a un controllo giudiziario”.
La necessità di trascinare nella polvere Assange si spiega con la stessa esistenza del sito che ha fondato, WikiLeaks, che Melzer descrive come una “valvola di sicurezza per la società”: un meccanismo attraverso il quale informazioni che altrimenti non arriverebbero al grande pubblico, perché i governi si guardano bene dal diffonderle e molti media sono ben lieti di stare al gioco, vengono portate alla luce del sole. “A differenza che nel giornalismo tradizionale, quelle informazioni vengono editate solo in minima parte”.
Nei giorni scorsi Assange è tornato sui giornali per l’udienza presso l’Alta Corte britannica, che si è presa fino al 5 marzo per decidere la sua estradizione negli Stati Uniti. Gli Usa mettono nel mirino Assange perché ha divulgato i documenti “leaked”, appunto, da Chelsea Manning, tra cui il video dell’assassinio, da parte di militari americani che mai hanno dovuto renderne conto, di diversi civili iracheni e di due reporter della Reuters, Saeed Chmagh e Namir Noor-Eldeen. Manning allora era di stanza in Iraq e lavorava come analista d’intelligence, potendo accedere a enormi quantità di documenti sia militari sia diplomatici. E’ stata poi condannata a 25 anni di carcere (e tenuta in isolamento e torturata) ma ha goduto del perdono presidenziale da parte di Barack Obama. Durante la presidenza di quest’ultimo, gli USA decisero di non aprire un procedimento contro WikiLeaks perché era testata giornalistica (la quale peraltro gestì alcuni dei suoi primi scoop in collaborazione con media “tradizionali” fra i più noti del pianeta) e incriminarla per spionaggio avrebbe creato un precedente pericoloso per la libertà di stampa.
Quel che succede dopo è difficile riassumerlo in poche righe. WikiLeaks pubblica centinaia di migliaia di “cablo” (le comunicazioni fra ambasciate Usa e dipartimento di Stato) e poi una serie di documenti sulle capacità informatiche della Cia (invece, non è WikiLeaks che butta in pasto ai giornali i “PanamaPapers”). Nel mentre, diffonde anche delle e-mail del comitato elettorale di Hillary Clinton, che gli valgono l’accusa di aver contribuito a “rubare” le elezioni per conto di Trump facendo il gioco della “influenza russa” che si è fatta sentire nelle elezioni del 2016 (più comodo denunciare quella che domandarsi perché le persone abbiano votato Trump).
Il giudice John Koeltl della corte distrettuale di New York dà torto al Partito Democratico che aveva fatto causa ad Assange.
Causando un presumibile sgomento nell'intero establishment politico di entrambi gli schieramenti, Koeltl ha descritto Assange come un "giornalista" e ha considerato le pubblicazioni di WikiLeaks protette per una questione di libertà di stampa. Il giudice ha sottolineato che "esiste una distinzione legale significativa tra il furto di documenti e la divulgazione di documenti che qualcun altro ha rubato in precedenza". Più specificamente, ha sostenuto che il Primo Emendamento esclude la responsabilità di coloro che "pubblicano materiali di interesse pubblico nonostante i problemi nel modo in cui i materiali sono stati ottenuti, a condizione che il divulgatore non abbia partecipato ad alcun illecito nell'ottenere i materiali in primo luogo". Koeltl ha poi respinto la logica della cospirazione: "L'argomentazione del DNC secondo cui WikiLeaks può essere ritenuta responsabile del furto in quanto co-cospiratore a posteriori dei documenti rubati è anch'essa poco convincente. ... una simile regola renderebbe ogni giornalista che pubblica un articolo basato su informazioni rubate un complice del furto".
Per avere dato delle notizie ed essersi attirato l’odio dei governi di mezzo mondo, Assange è un uomo di fatto privato della sua libertà da dodici anni: prima all’ambasciata dell’Ecuador, poi nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh. Per mettere la cosa in prospettiva: negli USA, un condannato per spaccio di droga resta in galera in media per 17 mesi, un condannato per stupro per 7,2 anni, un condannato per omicidio per 17,5 anni.
Al di là degli aspetti umanitari, il “caso Assange” ci riporta al principio enunciato da Koeltl e a una questione di portata più generale: che cosa devono fare i media, in una società libera.
Non c’è dubbio che l’ossessione della trasparenza totale, agevolata anche dalla Rete, abbia i suoi lati oscuri. Ma questi riguardano individui sempre potenzialmente “tracciati”, a cominciare dalle loro transazioni economiche, e dunque esposti a qualsiasi ricatto del potere politico. La qual cosa sembra interessare molto poco l’opinione pubblica, dal momento che il consenso per passare a strumenti di pagamento che eliminerebbero ogni traccia di privacy finanziaria (le monete digitali di banca centrale) è pressoché unanime, così come unanime è stata per anni la condanna del segreto bancario.
I segreti del governo sono altra cosa rispetto a quelli delle persone. Non c’è dubbio che ci siano e ci saranno sempre, perché lo stesso esercizio del potere li alimenta, ma la differenza fra società relativamente libere e società che libere non sono dovrebbe risiedere anche nella possibilità di costringere lo Stato e i suoi apparati a dar conto di quello che fanno. Fa veramente un po’ sorridere che chi richiama le istituzioni pubbliche alla accountability quando si discute di nomine in questo o quel comitato, in questo o quel consiglio di amministrazione, poi non ne senta il bisogno se si parla del modo in cui vengono condotte le guerre o di come vengono trattati i detenuti in questa o quella struttura penitenziaria.
Opportunamente, Melzer distingue fra “segretezza” e “riservatezza”:
la segretezza non solo nasconde alcuni fatti dalla conoscenza pubblica, ma li sottrae anche al controllo giudiziario e alle potenziali sanzioni. Crea un vuoto giuridico. Ho lavorato per oltre due decenni all'interno del sistema internazionale e sono giunto alla conclusione che questo tipo di segretezza, che mette al riparo intere aree dell'attività statale dalla vista del pubblico, non è né necessaria né accettabile. Non si può giustificare in alcun modo l'esenzione di qualsiasi sfera di governo dalla conoscenza e dalla supervisione pubblica. Ciò apre sempre la porta agli abusi e porta inevitabilmente alla copertura di crimini, sfruttamento e corruzione. Ciò di cui abbiamo bisogno, tuttavia, è la riservatezza, sia in senso diplomatico che individuale. La riservatezza diplomatica crea un ambiente protetto per i negoziati, le ispezioni e altre misure di fiducia volte a smorzare le tensioni e a mantenere o ripristinare una situazione di legalità. Se questo obiettivo non può essere raggiunto in tempi ragionevoli, la riservatezza diplomatica perde la sua giustificazione e può facilmente trasformarsi in segretezza e complicità.
Il discrimine è la creazione di quel “vuoto giuridico”, per cui non solo non valgono per gli apparati dello Stato le norme che valgono per le persone normali, ma non valgono nemmeno più le stesse norme che sono state scritte per governarli.
Se noi pensiamo che gli attori politici siano autointeressati, e dunque inclini a mantenere ed espandere il proprio potere, possiamo ipotizzare che cercheranno sempre di preservare e anzi ampliare l’area del segreto. Per questo esiste la libera stampa, che dovrebbe essere il cane da guardia del potere non nel senso che monta la guardia per il potere. Quando i mezzi d’informazione si limitano a passare veline che compiacciono i detentori del potere, non siamo in una società libera. La società libera vive, discute, s’incazza per informazioni disturbanti, indesiderate, controverse. Dovrebbe essere vero per le opinioni, ma ancora di più per la conoscenza di quei fatti, sulla base dei quali le opinioni dovrebbero formarsi.
Che ci sia simpatico o antipatico Assange, e che simpatici o antipatici risultino i suoi difensori, la sua vicenda è già uno spartiacque per la libertà di stampa e per la società libera, o quel che ne rimane.
Nils Melzer, The Trial of Julian Assange: A Story of Persecution, New York, Verso, 2022, pp. 427