Gli esergo, per quanto “fuori-opera”, possono dire molto di un libro, o così sperano gli autori. Ogni tanto succede davvero. Chiara Galeazzi apre il suo saggio con una dedica: “Ai commentatori, con preghiera di smetterla”. Poi due citazioni. Laozi: “Non esaltare i virtuosi, e così spingerai il popolo a rifiutare contese; non stimare troppo i beni difficili da ottenere, e così spingerai il popolo a non cedere al crimine; non esibire tanto ciò che più viene agognato, e così il cuore del popolo eviterà turbamenti”. Roberto Freak Antoni: “Mangiate merda! Duecentomilamiliardi di mosche non possono aver torto”. Infine, un disclaimer al fulmicotone: “Tutti i refusi nei commenti (altrui, ma anche miei) sono originali”.
Segue un volumetto smilzo, un personal essay nel quale si ride molto e ridendo si è costretti a pensare. “Se la maggior parte delle persone si facesse un paio di domande prima di scrivere on line, Internet sarebbe tutta campagna”. La rete mette a disposizione di tutti informazioni, idee, divertimento (abbiamo imparato a chiamarli: “contenuti”) con una velocità mai sperimentata prima. Ma il “contenuto”, che si tratti della video-recensione di un ristorante, del micro-documentario su qualche prodezza felina, o semplicemente di uno sfogo che per qualche motivo s’intende lasciare a futura memoria, costa tempo e un po’ di fatica. A essere istantanea e a costar nulla è la reazione al contenuto. Chi ne fruisce non ha più solo il potere di chiudere il libro, cambiare canale o decidere che da domani quel quotidiano lo lascia in edicola. Può rispondere in diretta all’autore. Come sempre, a questo mondo non s’inventa nulla: c’erano programmi televisivi cui si poteva telefonare, i quotidiani di tutto il mondo ospitano una sezione di lettere al direttore. Tuttavia, per farsi passare il centralino di una televisione bisogna dare le proprie generalità e, nel caso improbabile che tu finisca in diretta, toccherà fronteggiare il televisore che d’improvviso ti restituisce la tua voce, assieme alla consapevolezza tardiva che ti stanno ascoltando anche parenti e amici. Se l’indignazione è a mille, la lettera a un quotidiano si scrive da sé. Poi però va riletta, magari imbustata, portata alle poste… c’è tutto il tempo perché venga qualche dubbio, davvero mi voglio esporre su questo tema? Con l’e-mail è un po’ diverso, la rabbia detta parole a raffica e tanto più cattive quanto più si pensa che il destinatario semplicemente ci ignorerà, schiacciando il tasto del cestino. L’e-mail però è una corrispondenza privata. Il commento invece è pubblico, scrivi, clicchi e via, indietro non si torna. Somiglia ai mitici “microfoni aperti” di Radio Radicale, anche perché ora come allora è facile proteggersi dietro l’anonimato.
E’ questo meccanismo che alimenta i merdoni. I vocabolari, scrive Galeazzi in un appello “Ai redattori dei dizionari della lingua italiana”, ancora non contemplano il lemma in una accezione che è
molto vicina alla shitstorm inglese - traduco la definizione del Cambridge Dictionary: «una situazione in cui molte persone sono in disaccordo e litigano tra di loro». In italiano il merdone a volte scoppia, come la tempesta di cui sopra, altre volte si pesta, come fosse qualcosa lasciato sul marciapiede da un grosso cane. Quale che sia il verbo a cui si accompagna, il merdone è la reazione negativa di massa a un gesto considerato controverso. Online succede principalmente sui social, quando una frase o un post o una notizia genera una quantità di commenti negativi molto più grande della norma, Il merdone diventa tale solo attraverso i commenti.
“Ogni volta che qualcosa viene pubblicato on line, all’orizzonte c’è sempre un merdone”. L’ubiquità dei merdoni suggerisce che alla gente partecipare alle shitstorm, e tirarsi a vicenda, diciamo così, i chicchi di grandine, dia una gran soddisfazione. Il punto di partenza di Galeazzi è il tentativo di comprendere
cosa spinga a commentare il post di un influencer, la foto di uno sconosciuto, la frase volgare di utente X o la fallacia logica di utente Y. Per quale motivo dovrei reagire in modo diverso da come reagire nella vita reale davanti alla frase volgare o alla fallacia di una persona: penserei «ammazza che coglione», cercherei di evitarlo o se qualcuno mi chiedesse di lui, o di lei, risponderei «ma chi, quel coglione?» (…) Certo qualche volta sarebbe bello rispondere malissimo. Andare da uno sconosciuto che pubbica una frase idiota basata sul nulla e rispondergli. «Sbagli per questa, questa e quest’altra ragione». Oppure saltare le spiegazioni e dire solo «Ma che cazzo dici?»
Il saggio è il risultato di un esperimento: con un profilo anonimo (“Lauronica”/ @AcidoLauronico), Galeazzi - voce nota di Radio Deejay, ex redattrice di VICE, collaboratrice del Foglio - ha voluto “provare l’ebbrezza di buttarmi nella caciara, come fossi brilla” su X/Twitter. Ci sono due antefatti. Il primo è un merdone ante litteram, quando c’era ancora la piattaforma di blog Splinder e la Chiara diciottenne pubblica un “racconto tragicomico” di vita vissuta. Da cinque anni aveva un pesce rosso e “ogni volta che si avvicinava agosto io e i miei genitori dovevamo chiedere alla vicina di casa di tenerlo per il mese in cui saremmo stati in vacanza”. Quell’anno la vicina si sottrae e babbo Galeazzi decide di sbarazzarsi del pesce.
Così una domenica mattina misi il pesce in uno di quei secchielli in cui si vendono le mozzarelle al supermercato e andai coi miei al parco di Porta Venezia per abbandonarlo in un laghetto dove stavano altri pesci chiaramente abbandonati da altri bambini milanesi con padri che non volevano chiedere favori. (…) lo guardai nuotare per qualche minuto, finché un pesce grande tre volte lui gli andò addosso e lo scaraventò verso la sponda, lasciandolo immobile. Lo fissai sperando si rimettesse a nuotare, o almeno che non si ribaltasse come chiaro segno di morte, poi fissai mio padre che mi fissò con nervosismo e pena, come solo un signore del 1942, che a 18 anni stava già versando contributi all’INPS da almeno due, poteva guardare una che l’anno successivo si sarebbe iscritta a comunicazione e in quell’istante aveva da recriminare per un pesce rosso. Mia madre mi diede una pacca sulla spalla, e ce ne andammo.
Alla ragazzina divertita dalla “sproporzione tra il mio senso di colpa e l’indifferenza di tutti, pesce compreso”, rispondono spiegando come si trattasse di una persona orrenda: aveva tenuto un pesce rosso in un acquario. Non così “ma in un migliaio di battute, argomentando sui diritti dei pesci rossi”. Forse, sostiene ora Galeazzi, “avranno avuto anche ragione sulla questione, ma erano irragionevoli nelle modalità”. Tenderei ad azzardare che la modalità conta molto di più del merito della questione: nel senso che è di lì, dal liquidarsi a vicenda, dal bisogno di dire l’ultima parola, che viene il piacere che prova il commentatore, e dunque che si spiega perché perda tempo a suggerire all’influencer come si mettono i fantasmini o a spiegare l’economia al professore di Stanford. Se preferite una bella citazione di Stefan Zweig: “in fondo al fanatismo è indifferente la materia che gli darà esca: esso chiede soltanto di ardere e divampare, di scaricare le energie accumulate dell’odio”.
L’indagine della modalità è proprio l'oggetto dell’esperimento di Chiara Galeazzi alias “Lauronica”. L’anonimato le ha garantito di preservare i suoi tweet dal successo di pubblico (miglior risultato: 170 like e 5 retweet) ma pure di osservare il fenomeno dal punto di vista di un commentatore fra tanti. Con cui riesce a immedesimarsi fino a un certo punto: un po’ per il suo colossale talento comico, che dal libro esce benissimo e nei commenti è sprecato, e un po’ perché non riesce a prendersi sul serio come dovrebbe fare il personaggio che ha scelto di impersonare.
La prima cosa che scopre, ingaggiandosi coi suoi simili (simili perlomeno per la durata dell’esperimento), è che il commentare non ha bisogno di parlare, e men che meno di discutere. Ha bisogno di dire l’ultima parola, che è un’altra cosa. Tant’è che, al minimo cenno di dissenso, per quanto educatissimo, ce n’è non pochi che “bloccano” l’interlocutore, cioè si rifiutano di farsi leggere da lui e pure di leggerlo. A esperienza finita, Galeazzi si accorge che “le opinioni non cambiano, o meglio: vanno adattandosi verso la parte che ti dà ragione”.
Mi rendo conto che sia un’analogia banale, ma gli scambi di opinione che ho visto su X in questi giorni, così come altrove negli ultimi cinque anni, erano molto simili alle tifoserie del calcio, nel senso che non si è mai sentito qualcuno in uno stadio dire «Ehi, ma lo sai che quel coro sul fare i chilometri per superare gli ostacoli solo per il Napoli è molto più convincente del nostro? Basta Milan, ora cambio squadra»
Fra le tante idee cretine che ho avuto in vita mia c’è anche stato pensare, quando avevo quindici anni o giù di lì, che Internet sarebbe stato una moda passeggera e aver provato a resistere (per poco, beninteso) al primo abbonamento al service provider del caso, forse Italia on line, forse Virgilio, forse prima l’uno poi l’altro. Ovviamente ci misi poi mezza giornata per diventare Internet-dipendente e cominciai a bazzicare forum e mailing list di allora, social network antemarcia senza immagini e video. Pestai merdoni in quantità industriale ma strinsi anche alcune amicizie che durano tutt’ora, che fa impressione a scriverlo ma sono passati trent’anni o giù di lì.
All’epoca la rete era una cosa di testo e di élite, Umberto Eco era persuaso che gli sms avrebbero riportato la parola scritta al centro del mondo, ma sparavamo cazzate e ci insultavamo esattamente come fanno oggi maranza e influencer veri o presunti. Solo che eravamo molto più compresi nella parte, perché non solo ci sembrava di occuparci di cose tremendamente importanti ma pure di avere i titoli per farlo. A me sembra che le cose non siano molto cambiate. Nel senso che anche oggi le “tempeste di merda” non riguardano solo ed esclusivamente le persone che considerano Internet un grande bar sport (hanno torto?) ma soprattutto coloro che si sentono portatori di un messaggio, pensano di avere studiato e ritengono persino di avere delle cose da dire.
Il libro di Galeazzi è di “pressante attualità” - e lo sarà finché la gente troverà divertente passare le giornate sui social. Nelle ultime settimane, Cecilia Sala è stata al centro di una shitstorm perché ha pubblicato un post col quale voleva invitare alla cautela chi pensava che il regime change in Iran fosse dietro l’angolo. Scrivendo “è vero che impiccano tre iraniani al giorno, ma a Teheran ci sono più rave che a Roma” non voleva fare di Khamenei un campione di tolleranza quanto sottolineare come le cose siano un po’ più complesse di quanto sembri e come fra il regime teocratico e una società vibrante e viva si sia comunque stabilito un equilibrio che non è detto che salti quando e perché Israele e Stati Uniti lo desiderano. Sala, che dell’Iran ha conosciuto sia i rave che le carceri, è diventata agli occhi di decine e decine di commentatori una vittima della sindrome di Stoccolma, per limitarci ai più gentili. Non tutti questi commentatori esagitati erano “trumpiani”, come Galeazzi ogni tanto sembra suggerire.
Se crediamo che i “merdoni” siano un prodotto della maleducazione e dell’incultura di chi ha convinzioni talmente diverse dalle nostre che ci sembrano abominevoli, schiacciamo un merdone. Quel che segue è mera speculazione, non un’indagine sociologica. Riflette però la mia esperienza e quella di altri. Il commentatore militante magari non ha letto Marx, ma sa che ha scritto Il capitale. Sono anni che non compra un giornale, come tutti o quasi del resto, però riconosce le testate. Al liceo non era il più somaro del gruppo - ed è probabile che abbia fatto il liceo e non un istituto tecnico. Non solo non pensa di essere ignorante ma, a giudicare dagli anni di scuola, lo è meno dei più.
Faccio un micro-esempio che mi riguarda (e che ovviamente impallidisce sia innanzi a Galeazzi che a Sala). Qualche settimana fa, in un discorso parlamentare, Giorgia Meloni ha citato l’encomio di Pericle (Fabrizio Roncone intercetta “due senatori leghisti che cercavano su Google: chi è Pericle? Risposte: Pericle generale, «Pericle il nero» film, Pericle Fazzini scultore. Ma la premier si riferiva al generale”). Il contesto è quello delle prove cui la politica internazionale sottopone l’Italia. La felicità deriva dalla libertà e la libertà dal coraggio (dunque: ce la metteremo tutta perché i nostri figli non perdano né la felicità né la libertà). Citazione se volete un po’ usurata, ma di cui la premier fa un uso legittimo, senza storpiarla a proprio vantaggio. Nella sua trasmissione, Corrado Augias tuona:
vero che Pericle dice, secondo Tucidide, la felicità deriva dalla libertà e la libertà dal coraggio. Ma la frase non chiude lì. La frase continua con queste parole: non preoccupatevi quindi dei pericoli della guerra. Allora io chiedo: che valore ha riportare una citazione nobile, alta, classica, se la si deve tagliare a metà perché corrisponda ai propri desideri? Io ricordo che il nostro vecchio professore al liceo diceva: mai fuori dal contesto, mai fuori dal contesto. E con questo intendeva dire: mai una parola che prescinda dalle altre che la circondano e anche dal luogo, dal tempo e dalle circostanze in cui quella parola è stata scritta. Se quell’operazione si fa, se si isola un detto, quella citazione non vale più niente, diventa un orpello e può anche diventare una colpa.
Applausi scroscianti, nella forma del cuoricino. Ovvero reazioni stizzite: “alla 7 siete tutti comunisti”. Siccome a me Augias è simpatico, provo a rispondere con un commento più articolato. Comincia con un “Veramente un brutto intervento” e finisce con “Capisco che lei parli dell’Egeo per dire in realtà del Tirreno [siamo in tempi di polemiche sui migranti] ma ogni tanto è meglio lasciar perdere l’ambizione di essere sempre sul pezzo”. In mezzo
E’ vero che l’orazione di Pericle è ambigua, lo scopo dello stratega è quello di invitare a proseguire a combattere. Ma è altrettanto vero che ciò che di quel documento è straordinario, e riconosciuto tale, è l’invocazione a combattere in nome di un “modo di vivere” ateniese che Pericle/Tucidide identifica con una serie di istituzioni e usi (da noi arrivano merci da tutto il mondo, non è un problema la povertà ma il sottrarsi ai doveri comuni, non temiamo nessuno al punto di non avere segreti con gli stranieri, eccetera). Di quel modo di vivere ateniese la frase citata da Meloni è rappresentativa anche da sola. Stiamo parlando del discorso di un leader politico, non di un articolo accademico. Se si prendesse sul serio il suo intervento, caro Augias, semplicemente non si citerebbe più nulla (sicuro che ci piaccia l’idea? Che un politico non debba nemmeno far finta di sapere chi erano Pericle o Lincoln o Marx?)
Ometto il resto, per evitare di citare non Tucidide e nemmeno Augias bensì me stesso. Ovviamente, consensi da destra, insulti da sinistra. Poi, qualche critica argomentata. Le quali fanno rivalutare l’insulto. Perché almeno al “testa di cazzo” (che fa pur sempre parte della libertà d’espressione) uno non risponde, e anche a leggerlo te la cavi in due secondi. Ma alla lagna che comincia col “da lei non me l’aspettavo professore” (che significa che questo si è pure preso la briga di andare a vedere il mio profilo, avremmo risparmiato tutti tempo e fatica se si fosse limitato a darmi del fascista) e finisce sostenendo che chi cita tizio o caio per guadagnarsi il “diritto” di farlo debba fornire una sorta di mini profilo critico di quel che cita, dovresti per buona creanza rispondere ma non sai nemmeno da dove cominciare. Perché per sostenere con apparente buona fede che i discorsi politici debbano arrivare con tanto di note a pie’ di pagina, o uno deve essere sceso da Marte oppure la buona fede è, appunto, solo apparente.
In occasione degli ultimi referendum, quelli sul Jobs Act, molti commentatori hanno notato come l’affluenza sia stata maggiore nei comuni con una più alta percentuale di laureati. Sottinteso: chi ne capisce ha votato, e ha votato come me. Ma se il titolo di studio fosse un buon indicatore della propensione a prendere decisioni sagge non per sé ma per gli altri, tanto varrebbe limitare il suffragio o “pesarlo” (un PhD vale il triplo dei voti di una licenza media…). In realtà la laurea in medicina insegna, si spera, a fare il medico, ma non fa di chi ce l’ha un cittadino migliore, o più equilibrato, di altri. Se il voto dei “deplorables” trumpiani è tribale, non è detto che il voto dei loro oppositori, signori ben vestiti delle coste, sia meno tribale.
Concludo con un'osservazione di Chiara Galeazzi che mi sembra illuminante, sul modo in cui i merdoni si alimentano: “l’impressione è che ci siano tanti centri in cui converge la rabbia, ma i veri merdoni diventano tali solo se c’è di mezzo qualche altro media: televisione, siti d’informazione, radio”. Spesso piace pensare che i social abbiano una popolazione tutta autoctona, che nulla ha da spartire con quel che le sta attorno, un pubblico terribile e spietato cui il web ha tolto la mordacchia. Ma forse i social sono meno autoreferenziali di quel che ci sembra. E i media “mainstream”, che tanto li biasimano, sono poi i primi ad attingervi per infondere nuova vita a format ormai consunti. Non di soli social vivono i commenti, e viceversa.
Chiara Galeazzi, Merdoni. Perché commentare online è una pessima idea, Milano, Blackie, 2025, pp. 160.
"Non hai capito nulla!" "Leggi di più sul tema e forse capirai" "Ratto di sinistra!" "Fascista!" "Tradisci la causa femminista!" "Ancora una femminista che porta calzini di lana di capra!" Merdoni su molle a compressione: li tocchi con la parola giusta e... Pang! 😎
As usual 👏 .
(A parte il poco rispetto per la veneranda età di Augias, attenuante per le sue sempre più frequenti immersioni nei mer...i 😅).
Per ragazzi di campagna come me (e il grande Luigi Meneghello), il mondo dei mer...i si divideva in: m.....i utili, le deiezioni bovine ed equine, ad alto valore di concime; tutte le altre ... da cui libera nos a maluamen, dove "luamen" è corruzione pseudo latina di "luame"🫢