Qualche giorno fa ho scritto un articolo sulla Tercera di ABC, l’unico quotidiano che seguita a pubblicare la terza pagina in terza pagina, nell’arduo tentativo di spiegare l’elezione del Presidente della Repubblica, o perlomeno il poco che ne capisco, al pubblico spagnolo. Il titolo, indovinato, era El niñero de Italia, il baby sitter dell’Italia. Ricordavo che il nostro sistema politico è andato incontro, negli ultimi anni, a momenti di crisi ai quali non è riuscito a trovare una risposta al suo interno: momenti in cui i partiti fanno a gara a sfilarsi dalle responsabilità di governo e accettano delle “tregue” alla dinamica democratica, sperando di condividere non necessariamente un percorso di riforma ma senz’altro uno scudo per preservarsi dalla rabbia degli elettori. In quei momenti, il Presidente gioca un ruolo chiave. Lo ha fatto Scalfaro nel 1994, lo ha fatto Napolitano nel 2011 e poi nel 2013, lo ha fatto Mattarella stesso nel 2018, nel 2019 e poi ancora nel 2020. Il Presidente è una specie di sarto, che disegna e cuce nuove formule politiche, che non necessariamente coincidono con le aspettative degli elettori ma dovrebbero servire a fare passare ‘a nuttata. Una nuttata che, di recente, ha coinciso con il tempo di tutta una legislatura.
I partiti italiani restano macchine capaci di costruire consenso, ma sono molto meno capaci di trovare soluzioni di governo di quanto non lo fossero ai tempi della vecchia Democrazia Cristiana. Il loro personale è a suo agio nei talk show ma meno sotto pressione e sono pochissimi i leader che hanno una dimensione internazionale. In qualche modo, quindi, in questi giorni stanno votando per una figura che ha una dimensione non solo cerimoniale: votano per chi dovrà inventarsi soluzioni al loro posto, nel caso il tempo volga al peggio.
Se questo è il ruolo del Presidente, si capisce perché i partiti facciano fatica a sceglierlo. Ma se ne dovrebbe anche dedurre che essi tendano a privilegiare candidati con alcune caratteristiche anziché altre. La politica è un gioco a somma zero e nessuno vuole una controparte più forte di lui. Con giubilo apparentemente bipartisan, i partiti italiani hanno eletto un Presidente che aveva dichiarato in tutti i modi di non voler più stare al Quirinale, che si era fatto ritrarre nell’atto di ispezionare il suo nuovo appartamento romano, che aveva segnalato persino l’idea di una rielezione come uno sbrego nella “costituzione materiale” del Paese. Sono andati a pregarlo in ginocchio, dopo una settimana in cui la destra ha bruciato allegramente i nomi più diversi e la sinistra ha scelto (col senno di poi, giustamente) la tattica di assistere all'autocombustione degli avversari. Qualcuno, con molta fantasia, immagina che nell’anno che prelude alle prossime elezioni il governo Draghi godrà di chissà quale impulso riformista, con un Presidente del Consiglio unchained dopo questa deblacle di tutti i partiti. Quel che è certo è che il Presidente della Repubblica vede di molto rafforzata la sua posizione.
Il Presidente della Repubblica è, per fortuna, un politico della vecchia scuola, le cui idee e i cui principi sono noti. Il ruolo lo porta ad essere il Presidente di tutti, ma l’uomo politico, giustamente, ha simpatie ed antipatie incancellabili. E’ un Presidente che nel 2018 non ha affidato ai due leader dei partiti “populisti”, usciti vincenti dalle elezioni, Luigi Di Maio (un Di Maio molto diverso dal Di Maio di oggi) e Matteo Salvini (un Salvini straordinariamente simile a quello di oggi), neppure un mandato esplorativo, volto a verificare la possibilità di comporre un governo. Per la destra, la conferma di Mattarella è una pesante sconfitta e un’ipoteca sulla speranza di poter dare vita, in caso di esito favorevole alle elezioni, all’esecutivo che vorrebbe.
Come mai allora il centrodestra l’ha votato, con la sola eccezione di Giorgia Meloni?
Dare un senso alle evoluzioni degli ultimi setti giorni non è facile. I due giovani leader del centrodestra, Salvini e Meloni, hanno cominciato con lo stoppare la candidatura di Silvio Berlusconi. Berlusconi avrebbe potuto vincere? Improbabile, ma lasciarlo in campo sino al quarto scrutinio significava dargli la possibilità di sfilarsi un momento prima, facendone l’interlocutore della sinistra e il king maker del nuovo Presidente. Fantapolitica? Berlusconi ci credeva e sarebbe andato fino in fondo? Non possiamo saperlo ma nel dubbio Salvini e Meloni hanno cercato di liberarsi da una mina sulla quale intuivano di poter saltare per aria.
Quello che hanno fatto poi è meno facile da comprendere. Hanno proposto una rosa di tre nomi, Pera, Nordio e Moratti,che poi non hanno mai votato (salvo Nordio, alla fine diventato il voto di testimonianza della Meloni). Quindi la Lega si è astenuta e Fratelli d’Italia invece ha votato uno dei suoi volti più popolari, Guido Crosetto. Poi Matteo Salvini è parso avere nella manica il nome di Sabino Cassese, candidatura per niente “di parte” e sulla quale la sinistra avrebbe fatto fatica a dir di no: se l’è fatto bruciare da una dichiarazione di Maurizio Gasparri. Poi il centrodestra ha proposto un candidato di bandiera, ma non Berlusconi, cioè un pezzo della sua storia, e neppure Marcello Pera, intellettuale ben noto e caro a tutti coloro che, fra i militanti di quelle forze politiche, seguono i temi cosiddetti “etici”. Bensì Elisabetta Casellati, Presidente del Senato nota a un’esigua frazione dei militanti e più famosa per un paio di scandali e qualche incidente (anche stradale) che per preclare battaglie politiche. Un ultimo giro di valzer coi Cinque Stelle sul nome di Elisabetta Belloni, alto funzionario pubblico rispettabilissimo ma del tutto ignoto a chi non frequenti i palazzi romani, e poi Salvini ha alzato le braccia: votiamo Mattarella.
Se l’elezione del Presidente della Repubblica fosse stata un imprevisto, una sorpresa, e non un evento noto e programmato da anni; e se Matteo Salvini fosse un politico di primo pelo, un giovanotto di belle speranze, e non un signore che ha ottenuto la sua prima carica elettiva (al Consiglio comunale di Milano) quando chi scrive era alle medie, nell’anno di grazia 1993, tutto questo sarebbe comprensibile. Purtroppo le cose non stanno così e queste elezioni confermano una volta di più quella che è, per l’Italia, una vera tragedia: la qualità molto bassa, per usare un eufemismo, del ceto politico della destra, che pure ha i voti di più della metà del Paese. Badate bene: qui non stiamo parlando di una debolezza, per così dire, sui dossier, legata ad arcane questioni di diritto, nemmeno rispetto alla capacità di articolare un’agenda economica. Qui stiamo parlando dell’incapacità di giocare al gioco della politica, che è lotta per il potere e non può ridursi a lotta per l’attenzione del pubblico votante.
Ci sono alcuni elementi “di fondo” che contribuiscono a spiegare quello che è successo la scorsa settimana. Se possiamo trarne una lezione, è che le forze politiche oggi in Italia si dividono soprattutto su due questioni, entrambe di scarso interesse per il cittadino medio: la prima è la durata della legislatura, la seconda è il sistema elettorale con cui si andrà a votare nel 2023. A voler andare a votare presto era chi ha perso (Giorgia Meloni, che vedrebbe aumentare i propri consensi) o chi ha dovuto far buon viso a cattivo gioco (Giuseppe Conte, che più tardi si vota e più è sicuro che tornerà a far lezione all’Università).
La legge elettorale con cui abbiamo votato nel 2018 è pessima, ma consentirebbe, dopo l’harakiri dei Cinque Stelle, la sopravvivenza di un assetto bipolare, che poi vuol dire un sistema in cui gli elettori possono almeno provare a scegliere chi li governi. Da più parte si invoca il sistema proporzionale. Chi lo desidera pensa che sia necessario e opportuno tornare apertamente a una condizione nella quale le maggioranze si fanno in Parlamento. I primi a volerlo sono i centristi, che pensano di riuscire solo così a far contare le forze, per ora scarse, di cui li accreditano i sondaggi.
Staremo a vedere che succederà. Non è facile fare previsioni, perché per farle tendiamo ad assumere che i capi politici si muovano sulla base del proprio interesse. Questa elezione presidenziale ci suggerisce che però non sempre è così, che leader politici pure di grande successo, capaci di conquistare voti a man basse, riescono a essere le prime vittime della propria confusione. Di solito chi osserva la politica italiana cerca di intravederne il sentiero ricordandosi che siamo il Paese di Machiavelli. Ma siamo anche il Paese di Fracchia.
In Italia è migliore un sistema proporzionale o maggioritario? E perché?