La fantascienza tende a essere spesso un genere ricco di suggestioni “politiche”, anche quando si tratta, come viene chiamata con intenti spregiativi dai suoi critici, di western spaziale (dizione che per me sottende un complimento, ma tant’è). E’ il caso di Double Star di Robert A. Heinlein (1907-1988), romanzo dal titolo geniale e che per certi versi somiglia a una versione pop di The English Constitution di Walter Bagehot: un’immersione in meccanismi istituzionali di fantasia che però ricordano da vicino l’ossatura dei regimi liberali, in questo caso appunto di una monarchia costituzionale.
Heinlein è stato una delle letture più felici della mia adolescenza. Da bambino non leggevo molto, fumetti più che altro, ed ero abbastanza refrattario ai suggerimenti delle pazienti maestri della scuola elementare. Fino all’incontro, folgorante, con un paio di “Millemondi Urania”, i volumoni in cui erano ristampati, appiccati assieme, due o più romanzi già usciti su “Urania” propriamente detta. I due “Millemondi” contenevano uno tre romanzi di A. E. van Vogt, l’altro due romanzi di Heinlein, fra cui The Moon Is a Harsh Mistress che non lo sapevo ancora ma è un classico sia della fantascienza che del liberalismo. E’ in quella rievocazione su suolo lunare della rivoluzione americana (con tanto di dubbi circa l’effettiva efficacia nel costruire un regime autenticamente nuovo) che ritorna, come un mantra, TANSTAAFL, There ain't no such thing as a free lunch, nessun pasto è gratis, che di solito associamo a MIlton Friedman.
Double Star l’ho letto dopo e l’ho riletto qualche giorno fa. Come scrive Ken MacLeod, un bravo scrittore contemporaneo di fantascienza, nella prefazione a questa edizione, il libro è un elogio della liberal-democrazia. Il regime politico che Heinlein immagina è ricalcato su esempi che ben conosciamo, nella loro versione migliore. L’umanità si è espansa nello spazio ed è retta da un rappresentante della casa d’Orange, un monarca costituzionale che al massimo può dare un suggerimento al capo del suo governo ed è convinto che il suo mestiere sia fare il possibile per evitare alzate di testa del potere esecutivo. Tutt’intorno, nel palazzo imperiale, i vessilli delle altre grandi casate della terra, impegnate fra cocktail e cerimonie come ospiti permanenti a corte.
Il protagonista è un attore che deve fingersi il leader dell’opposizione, perché quest’ultimo è stato rapito. A suo modo, è una storia di ascesa sociale, anche se per la via meno consueta. Da principio “Lorenzo Smythe noto anche come il grande Lorenzo” è un pavido, con scarso rispetto per le idee, liberali e liberiste (Heinlein credeva nel libero scambio, che è sempre un attributo delle società che funzionano, nei suoi libri) professate dal leader che deve imitare. Ma, impersonandolo, impara a ragionare come lui. Il panorama politico è pieno di insidie, di ambiziosi e mezze tacche, di arrampicatori sociali e bugiardi professionisti. Anche uno statista retto e la sua squadra sbagliano le loro mosse e valutazioni. L’attore diventato politico impara però le regole del suo nuovo mondo, ne approfondisce le logiche, si adatta alle sue dinamiche senza rinunciare ai tratti che riconosce fondamentali alla sua parte: onestà, rettitudine, idealità.
Si può essere un uomo di principio e un capo politico nello stesso tempo e se pure è, nel senso più proprio, una recita, a un certo punto la forma diventa sostanza, che è un principio non dei più periferici del liberalismo.
Questo è un romanzo ottimista, e quanto ce n’è bisogno.
Robert A. Heinlein, Double Star (1956), London, Gateway, 2013, pp. 224.