E’ nella natura delle cose che ciascuno di noi tenda a esagerare l’importanza di quei fatti che ci sono più prossimi. Accade più o meno a ogni appuntamento elettorale. La crescente personalizzazione della politica, che diventa uno scontro di cappa e spada fra i nostri eroi da una parte e terribili figuri che non possono che causare disastri dall’altra, amplifica la percezione di una lotta fra civiltà e barbarie.
Ci sono però tendenze di fondo che hanno un peso ben superiore a qualsiasi scontro fra partiti. Una di queste è il modo nel quale è cambiata, nel secondo dopoguerra, la concezione del bilancio pubblico. Per comprenderlo, non c’è guida migliore che questo libro di James M. Buchanan e Richard Wagner, pubblicato nel 1977 ma ancora attualissimo. Buchanan, Premio Nobel per l’economia nel 1986, col collega Gordon Tullock è il fondatore dell’economia delle scelte pubbliche: il più importante tentativo di usare la cassetta degli attrezzi dell’economista per capire la politica. Molto importante fu per lui un viaggio in Italia nel quale cominciò a studiare gli economisti italiani che, sin dai tempi di Francesco Ferrara, avevano prestato molta attenzione a questioni politiche e temi di finanza pubblica. Noi, del resto, tendiamo a essere realisti, in politica, non per convinzione ma per necessità: il panorama che ci si para innanzi dissuade ogni illusione.
Oggi la cosa ci riesce difficile da credere, ma per i primi 181 anni della sua storia, il governo federale degli Stati Uniti aveva seguito una politica improntata ai principi del pareggio di bilancio. Questo non significa che aveva pareggiato entrate e uscite ogni anno, ma che, con regolarità, aveva messo in ordine i conti. Monarchi e Stati lo facevano non perché coltivassero chissà quale sacro terrore del debito, ma perché pensavano fosse la necessaria premessa per essere debitori credibili, in caso servisse loro di nuovo chiedere denaro a prestito. Cosa che si faceva in condizioni eccezionali: per esempio, nel caso di una guerra.
Tutto cambia con l’imporsi del keynesismo: non tanto per l’idea che lo Stato debba sostenere l’economia in un periodo di magra ma perché i politici leggono l’approccio keynesiano come una sorta di assegno in bianco. L’idea che a periodi di deficit si debbano alternare periodi di surplus di bilancio viene meno. La “democrazia in deficit” è appunto “l’eredità politica di Lord Keynes”.
La “democrazia in deficit” non è solo deficit ma l’architrave finanziaria, chiamata così, del genere di assetto che si determina nelle democrazie occidentali nel dopoguerra: Stato sociale più economia mista. Spiegano Buchanan e Wagner: “i deficit di bilancio permanenti, l’inflazione e un settore pubblico in crescita e già sproporzionatamente grande sono tutte parti di un pacchetto”.
Questo è vero tutt’oggi, anche se sono state aggiornate le formule politiche che lo giustificano: non si parla più della “curva di Phillips" per cui un elevato tasso d’inflazione sarebbe l’inevitabile contropartita di un’occupazione in crescita. Ma per esempio si parla di “Stato imprenditore”, come se solo da un massiccio intervento pubblico possa arrivare la spinta all’innovazione tecnologica, si riesumano argomenti a favore di investimenti infrastrutturali a carico dello Stato (anche se le esigenze non sono tanto chiare come ai tempi dell’autostrada del sole), si forzano i peraltro incerti confini concettuali del “debito buono”. Tutto fa brodo, anzi tutto fa deficit.
Buchanan e Wagner pubblicano questo libro alla fine degli anni Settanta, dopo che la “stagflazione” (la compresenza di alti tassi di inflazione e stagnazione economica) ha confutato la curva di Phillips e quando il “keynesismo politico” sembra essere andato in crisi. Il libro si conclude con dei suggerimenti per tornare al pareggio di bilancio attraverso delle “regole fiscali”.
Il nostro Parlamento ha modificato l’articolo 81 della Costituzione nel 2013, per richiedere l’equilibrio fra entrate e uscite, peraltro “aggiustato al ciclo economico”. Da allora i nostri parlamentari hanno tutti gli anni per fare deficit, o come si dice adesso, con un curioso eufemismo, “scostamento di bilancio”. Nei mesi a venire ci attende anche la discussione sulle nuove regole fiscali europee, rispetto alla quale l’Italia ha sinora giocato a fare la sindacalista di se stessa. Speriamo che il nuovo governo sappia prendere la questione con la serietà che merita.
Le regole fiscali preservano il bilancio pubblico, ma soprattutto le generazioni future (che non si meritano di pagare il conto delle nostre spese) e la stessa natura della politica: che ha senso se è scelta fra impieghi alternativi per i quattrini del contribuente, scarsi come ogni cosa al mondo, non come magia che esaudisce tutti i desideri. Anche perché la magia non esiste, esistono soltanto i trucchi.
James M. Buchanan e Richard E. Wagner, La democrazia in deficit. L’eredità politica di Lord Keynes (1977), a cura di Domenico Da Empoli, Roma, Armando, 1997, pp. 234.