Non c’è nessuna particolare ragione per prendere sul serio gli scritti politici di un artista o di un grande scrittore. Ma la tentazione viene quanto più questi sa di “non essere un professionista di nessun «sistema di idee»” e si avvede che “nulla è così lontano dall’arte come la politica, ossia il governo e l’amministrazione dei popoli” che necessitano di figure rispettabilmente noiose e non, se possibile, di formidabili geni determinati a lasciare il proprio segno nella storia. Questo libretto di Alberto Savinio, all’anagrafe Andrea De Chirico, raccoglie alcuni testi del 1943 e 1944. Nella Roma liberata, scrive Paola Italia, “è una fonte pura di energia”. Finito il fascismo e dunque saltata la mordacchia della censura, ha bisogno di scrivere e, mentre non smette di lavorare su cose più importanti (“basta scorrere la bibliografia dei testi pubblicati tra il 1943 e il 1945 per capire che i 268 giorni dell’occupazione di Roma avevano costituito per Savinio e per Valentino Bompiani - suo editore dal 1942 - il culmine di una straordinaria collaborazione”), produce a raffica pezzi giornalistici che hanno tutte le caratteristiche del sospiro di sollievo.
La “sorte dell’Europa” prospettata da Savinio è la cosa meno interessante del suo libro. La “comunità sociale” (che Italia ci spiega essere la versione eufemistica del “comunismo” delle bozze precedenti) viene immaginata come destino di un’Europa unita, ma non più nel solco del “sogno di Carlomagno” (sogno “a ripetizione”: “l’ha sognato Hitler, ma prima di Hitler l’ha sognato Carlomagno stesso, poi l’hanno sognato gli autori del Sacro Romano Impero, poi l’ha sognato Carlo Quinto, poi l’ha sognato Napoleone, poi l’ha sognato Guglielmo II”) bensì da un’Idea. Il comunismo serve allo scopo perché è l’idea “pratica” del secolo ventesimo così come il liberalismo era l’idea “pratica” del secolo diciannovesimo, come se ci fosse un vento delle idee che ora ne spinge una ora l’altra e non c’è nulla da fare. C’è molto storicismo in queste pagine, dove spicca una difesa appassionata del liberalismo, visto come lo stadio più alto di qualsiasi civiltà. Del resto, alla vaga profezia della “comunità sociale” domani affiancava una netta difesa della società borghese oggi. E pure dell’esser borghese, persuaso che “la qualità di borghese Omero la chiama «asteiòtes», e in questa qualità riunisce le qualità di intelligenza, sapere, civiltà, cortesia, arguzia”.
Ogni notte i muri di Roma si lordano di scritte, che il giorno non riesce a cancellare. Con un poco di buona volontà, si potrebbe vedere anche in questo un aspetto della continua ma non vittoriosa lotta della luce contro le tenebre, del bene contro il male. Quanta stupidità e quanta monotonia! Ho letto: «W Hitler». Ho letto «Vendichiamo Caruso». Né queste sono le scritte più bestiali. Sono così mostruose queste scritte e assurde, che si elidono da sé. La scritta più bestiale che io abbia letto finora è questa: «/\/\ al liberalismo». Colui che di notte, per mezzo di un pennello inzuppato nel colore liquido, ha tracciato sul muro di una casa di via Paisiello queste parole, esteriormente ha forse apparenza di uomo, ma interiormente non ha nulla di umano; perché chi desidera, e si augura, o soltanto pensa la morte del liberalismo, è come se desiderasse, e s’augurasse, o soltanto pensasse, la morte di tutto ciò che nell’uomo è più altamente e nobilmente umano. Liberalismo non è un partito politico, come crede probabilmente quel buio scribante notturno e credono tanti, credono i più. Liberalismo non è una forma politica né tanto meno una formula politica. Liberalismo è un che di meno mutevole, di più profondo e fermo. Liberalismo è la metà superiore dell’uomo. Liberalismo è l’uomo dalla cintola in su. Liberalismo è l’uomo dal cuore al cervello. Liberalismo è l’uomo dei sentimenti e dei pensieri, contrapposto all’uomo dei bisogni e degli istinti.
Questo crescendo s’inserisce alla perfezione nell’analisi, per la verità non particolarmente originale, per cui ciò che ha consentito la sopravvivenza del regime è stata l’assenza di “pensiero e giudizio” fra gli italiani.
Non si tratta di indicare agl’Italiani quello che è bene e quello che è male, come fa il dommatismo, quello che è lecito e quello che è illecito, quello che è bello e quello che è brutto (anche le lettere, le arti, il pensiero vanno liberati dal dommatismo, ma di questo non è il caso di parlare qui): si tratta di rompere e la tradizione recente e quella più antica e dunque più tenace perché venerabile, e addestrare l’uomo a determinare da sé quello che è bene e quello che è male, quello che è lecito e quello che è illecito, quello che è bello e quello che è brutto. Si tratta di dare agli Italiani un peso specifico morale e mentale. Si tratta di fare degli Italiani altrettanti uomini pensanti e giudicanti. Si tratta di comporre una Nazione nella quale ogni cittadino è in sé uno Stato.
La metafora non è forse felicissima (gli Stati hanno poi questo grande “peso specifico morale”?) ma adombra la prospettiva di una “sovranità individuale” - più forte dei richiami della società di massa, delle mode, delle identità politiche. Savinio non ha dubbi che “l’autorità odia l’intelligenza”.
C’è in Savinio qualcosa di più interessante e originale dell’idea che i regimi portino al pascolo le masse ignoranti (la “passività” prodotta dal fascismo era per l’appunto lo “svuotamento del peso specifico morale e mentale”). Anzitutto, ciò che lo angustia è la mancanza “di giudizio”. “Le cognizioni non valgono se non come «guide» del giudizio, e poiché il giudizio elimina le cognizioni che non gli servono, basta un numero limitato di cognizioni a fare colta una mente, illuminata, feconda”. Tant’è che
L’ignoranza come «cosa in sé» non mi fa paura, né sono alieno dall’accettare l’opinione di Sofocle il quale diceva che «nell’ignorare la vita è dolcissima». L’ignoranza non mi dispiace. L’ignoranza è utile, è compagna, è amica; è amica della stessa intelligenza (pensiero da sviluppare) ed è per un pudore falso, per un orgoglio sbagliato che l’uomo ha vergogna della propria ignoranza (…) L’ignoranza del resto che è? Per meglio dire dove finisce la conoscenza e comincia l’ignoranza, e chi può, chi ha il diritto di tracciare questa frontiera? Il numero delle cognizioni essendo illimitato, anche l’uomo più inzeppato di cognizione non perde il diritto al titolo di ignorante.
L’elogio del liberalismo di Savinio è il rifiuto del “credo unico, di qualunque specie” che si rivela “la rovina dell’umanità”, perché lo è dell’uomo singolo. Liberalismo al contrario come pluralismo, come varietà, come coesistenza, dialogo e scontro dei diversi.
Liberalismo è Pericle che di nascosto apre il carcere di Anassagora, condannato a morte per aver espresso idee contrarie alla teologia di stato. Liberalismo è la Grecia libera e intelligente che respinge la Persia stupida e schiava (...). Liberalismo è un’arte libera come quella di Picasso, contro l’arte gretta di coloro che credono a un vero più vero di un altro vero. Liberalismo è l’arte senza generi, la politica senza partiti, il pensiero senza sistemi (…). Liberalismo è la poesia divinamente ambigua di Alceo, contro la poesia categorica, militarizzata e unisessuale di Carducci.
L’elemento più rivelatore del “liberalismo” di Savinio è il rigetto della retorica: “retorico il muscolismo dei michelangiolisti, retorico il vitalismo estetizzante dei dannunziani, retorico il condottierismo del passato regime”. Gli stessi italiani equipaggiati di “pensiero critico” che Savinio vagheggia non sono “«grandi uomini» ma uomini soltanto che assieme con il meccanismo della respirazione hanno anche quello del pensare e del giudicare”. La retorica è “un male endemico nel nostro paese, il male che inquina la nostra vita, la nostra politica, la nostra letteratura e una delle cause principali, se non addirittura la principale delle nostre sciagure”. La retorica “gonfia i concetti, li arrotonda, taglia a essi gambe e braccia, toglie a essi manichi né anse. E i concetti diventano immobili, ingombranti, ostacolanti. I concetti «chiudono l’orizzonte». Non lasciano vedere né di là dal concetto né dai lati.”
Nel regime con le sue grandiose ambizioni e le sue chiacchiere imperiali, c’è una forma di mitomania che va combattuta anche sul terreno delle scelte concrete. La “gigantomania” retorica porta a vedere tutto in termini di schemi e programmi. Nutre l’abitudine di pensare sempre alle “grandi cose”, mettendo gli individui fra i dettagli trascurabili. Le soluzioni grandiose e definitive al “problema sociale” lasciamole alla Russia sovietica e agli Stati Uniti del New Deal. Smorziamo l’entusiasmo del “fare” a tutti i costi e subito (“abbiamo traversato un’orgia di energia, che per maggior effetto era chiamata dinamismo, e i risultati li vediamo”). In Italia storia e geografia suggeriscono di procedere per piccoli passi e con realismo:
In altre parole non sono consentite a noi organizzazioni di masse grandiose, perché leggi naturali e condizioni orografiche ci costringono alle organizzazioni ristrette, agili e spiritose, e quanto a me non penso a dolermene. Urge la creazione di un Ministero delle Possibilità, che studi le relazioni tra progetto e possibilità «fisiche» di attuazione, e soffi via, magari con fiato retorico, tutto quanto è ispirato da ambizione e dalla mania scimmiesca di imitare gli altri.
“Pungere il pallone retorico e sgonfiarlo” non è un cattivo programma liberale, ieri come oggi. Savinio s’accorge (per quanto in nota) che “la comunità sociale” realizzata potrebbe non piacergli granché e di lì a poco smette di fare la politica il centro dei suoi scritti, sentendosi vittima di “quella legge fisiologica che induce l’organismo a espellere da sé un corpo estraneo. E nell’organismo politico, il corpo estraneo ero io”. E del resto in tempi di passioni politiche accese, roventi, che spazio può trovare chi si autodefinisce un “dilettante”, non si duole della fama di “persona non seria” che accompagna questi ultimi e pensa che la devozione a un’idea sola faccia del devoto “un candidato al manicomio”? Nella misura in cui esiste, il liberalismo di Savinio è uno stile, venato di disincanto e ironia, non un programma. Tant’è che quando prova ad abbozzarne delle linee, sia pure generalissime, si contraddice, si blocca, s’imbarazza dei suoi stessi vaticini e poi torna a fare quel che sa far meglio ed è pure più urgente: suggerire di tenersi alla larga dai programmi altrui.
Alberto Savinio, Sorte dell’Europa (1944), a cura di Paola Italia, Adelphi, MIlano, 2017 (1977), pp. 126.