Al liberalismo sono sicuramente più utili dei critici intelligenti che degli adepti un po’ ciula (i quali, del resto, non mancano). John Gray è fra i critici più acuti del liberalismo contemporaneo. Il filosofo britannico si è occupato in altri tempi di Hayek e di Isaiah Berlin, confezionando sull’uno e sull’altro due delle migliori monografie tutt’oggi in circolazione. Riallacciandosi a una lunga tradizione interpretativa, in questo suo ultimo libro rivendica il carattere liberale dell’opera di Thomas Hobbes - e anzi sostiene, essendo un provocatore, che Hobbes sia l’unico liberale che vale davvero la pena leggere.
Il saggio di Gray a Hobbes si richiama sin dal titolo, The New Leviathans, al plurale, che è pure un omaggio all’ultimo libro di R.G. Collingwood, The New Leviathan, pubblicato nel 1942. Collingwood l’aveva incominciato a scrivere durante il bombardamento di Londra e quel testo, ambiziosissimo, voleva fornire una impalcatura intellettuale allo sforzo degli alleati. L’ultima sezione era dedicata alle diverse forme di barbarie, fra cui spiccava quella nazista. Frequente obiettivo polemico era la visione romantica degli eroi, che come le termiti erode la base della civiltà, preparando il ritorno della barbarie.
Gray se la prende invece con quello che chiama “iper-liberalismo”. Se il nuovo presidente argentino Javier Milei ama citare il suo mentore Alberto Benegas-Lynch, per cui il liberalismo prescrive “il rispetto incondizionato per i progetti di vita degli altri”, per Gray l’iper-liberalismo è quella “formula politica” (difficile leggerla come sistema di idee coerente) nella quale la stessa identità diventa un prodotto di questo progetto di vita.
Nelle società occidentali, l'obiettivo iper-liberale è quello di consentire agli esseri umani di definire la propria identità. Da un certo punto di vista, questo è il logico punto di arrivo dell'individualismo: ogni essere umano è sovrano nel decidere chi o cosa vuole essere. Da un altro punto di vista, è il progetto di forgiare nuovi collettivi e il preludio a uno stato di guerra cronica tra le identità che incarnano.
L’identità diventa il nuovo terreno di scontro, l’arena nella quale si svolge la lotta politica contemporanea. Per Gray, il compito della nostra epoca non è di mettere in ceppi i Leviatani, “come si è tentato di fare nella tarda epoca liberale, ma di renderli più simili a ciò che Hobbes riteneva potesse essere il Leviatano: un contenitore di esistenza pacifica. Riconoscendo che la pace può essere raggiunta in molti tipi di regime, Hobbes era un liberale più autentico di quelli che vennero dopo di lui”.
In meno di duecento pagine, Gray non può dare grandi indicazioni su come raggiungere lo scopo e si diverte spesso a dare sfoggio d’erudizione, estraendo dal cilindro pensatori sconosciuti al lettore di cui si diverte a dipingere miniature, per poi incastonarle accanto a nomi più familiari (da Dostoevskij a Pareto). Da anni Gray utilizza pensatori conservatori e reazionari per criticare l’idea di un progresso costante e lineare delle cose umane, ma ammette i benefici della tecnologia e ritiene, per esempio, che saranno più importanti di qualsiasi ipotetica revisione dei nostri consumi per affrontare il cambiamento climatico. Ciò che fa in The New Leviathans è mettere a fuoco alcuni tratti tristemente innegabili delle liberal-democrazie contemporanee: l’infantilizzazione dello scontro politico, il fanatismo diffuso in tutti gli angoli del discorso pubblico, il sostanziale superamento del principio di tolleranza.
Le elites occidentali stanno abbandonando la tolleranza in modo assai simile a quello nel quale le elites pagane avevano abbandonato i loro dei. Se il processo continua, le libertà liberali verranno presto dimenticate, assieme con il mondo nel quale venivano praticate.
Se penso ad alcuni fatti minori della cronaca politica italiana, nella quale sono i gruppi teoricamente più liberali a chiedere di silenziare conferenze e persino concerti in cui sul palco salgono persone di opinione diversa dalla loro, trovo difficile dargli torto. Spesso c’è del fanatismo nell’ateismo e parimenti i fautori della democrazia si rivelano i più intolleranti, proprio perché assumono la democrazia come un assoluto. Per non dire ovviamente di quanto si registra con drammatica frequenza nelle università statunitensi: il maggiore luogo di creazione di conoscenza del più importante Paese al mondo dove ormai (come dimostra il caso della rettrice di Harvard) le prassi di reclutamento hanno sempre meno a che vedere con ricerca e competenza.
Gray ci ricorda che, come tutto, anche le società libere sono un accidente della storia e sono abitate da esseri umani, inevitabilmente fallibili e “gettati nel mondo” in un certo tempo e in un certo spazio. Per questo la politica dovrebbe ricercare tregue, compromessi, un modus vivendi e non impegnarsi a pitturare la grandiosa tela dell’identità. Ogni sistema di idee che immagina che la storia abbia una direzione, anche se è l’emancipazione dell’umanità, è potenzialmente dispotico.
Per quanto si sforzi, e per quanto gli piaccia esibire simpatia per gli eccentrici di destra e di sinistra, Gray è troppo scettico per aver davvero smesso di essere il liberale che era trent’anni fa. E’ la liberal-democrazia occidentale che è cambiata in alcuni dei suoi tratti fondamentali e di questo dovremmo tutti prendere atto.
John Gray, The New Leviathans. Thoughts After Liberalism, London, Allen Lane, 2023, pp. 192