Bob Dylan arriva nel Greenwich Village nel gennaio del 1961, New York è “la città che darà forma al suo destino”, in una manciata di mesi passa dal tirar su “forse venti dollari” suonando nei fine settimana (“certe volte si guadagnava poco perché c’era troppa concorrenza”) a essere acclamato come “il portavoce di una generazione”. Al cinema, oggi Bob Dylan è Timothée Chalamet, giustamente candidato all’Oscar, che ne canta alla perfezione una quarantina di canzoni. A Complete Unknown si basa su Dylan Goes Electric! di Elijah Wald e abbraccia appunto il periodo che va dall’arrivo nel Village al Newport Folk Festival del luglio 1965, quando Dylan imbraccia una chitarra elettrica e manda a stendere la comunità della musica folk con Maggie’s Farm e Like a Rolling Stone, la canzone che ne celebra il passaggio da cantante folk a rock star.
L’autobiografia di Dylan, volume uno di una trilogia finora mai completata (i siti più ottimisti danno il secondo in prenotazione per il 2028, i più pessimisti per il 2030), non riguarda quell’episodio in senso stretto ma serve a capire il personaggio. Il racconto è autobiografico ma non cronologico, procede a zig-zag, dà ai critici e agli storici della musica tutto lo spago che serve loro per commentare passioni e influenze dell’artista da giovane, spiega la schitarrata elettrica senza parlarne.
Ronnie Gilbert, uno dei Weavers, mi aveva presentato a un folk festival di Newport dicendo: “Ed ecco a voi… Prendetelo, sapete chi è, è vostro”. All’epoca non avevo capito che le implicazioni di quell’introduzione erano inquietanti. Nessuno aveva mai presentato Elvis in quel modo. “Prendetelo, è vostro!” Era da pazzi a parlare in quel modo. Ma che andassero a quel paese. Per quanto mi riguardava, io non appartenevo a nessuno, né allora né adesso. (…) quelle piattole della stampa continuavano a parlare di me come della bocca, del portavoce, e perfino della coscienza di una generazione. Questa poi. Io non avevo fatto altro che cantare canzoni che parlavano chiaro e che esprimevano la forza di realtà nuove. (…) Il mio destino percorreva la sua strada, qualunque cosa la vita gli portasse, e non aveva niente a che fare con l’essere il simbolo di una qualche forma di civiltà. Restare fedeli a se stessi era l’unico imperativo. Io ero un cowboy, non un pifferaio magico.
Il mondo, riflette Dylan, “ha sempre avuto bisogno di un capro espiatorio, o di qualcuno che guidi la carica contro l’Impero romano. Ma l’America non era l’Impero romano e qualcun altro avrebbe dovuto farsi avanti e offrirsi volontario”.
Nel terzo capitolo, il racconto ha accenti comici, quando Dylan ripercorre il suo tentativo di fuga dal mondo, il ritiro in campagna con la prima moglie Sara e i cinque figli, assediati dai fan.
Cartine geografiche con l’indicazione del percorso che portava a casa nostra dovevano essere state appese in tutti i cinquanta stati a uso e consumo di bande di spostati e di drogati. C’erano dei morti di fame che arrivavano in pellegrinaggio fin dalla California. Provocatori ci entravano nelle stanze a ogni ora della notte. All’inizio erano perlopiù nomadi senza casa che commettevano violazione di domicilio, una cosa abbastanza innocua, ma poi cominciarono ad arrivare cani sciolti radicali in cerca del Principe della protesta, gente dall’aspetto indescrivibile, ragazze che sembravano garguglie, spaventapasseri, sbandati in cerca di feste dove intrufolarsi e che saccheggiavano la dispensa.
La risposta del padrone di casa è la più americana possibile: si procura un paio di Colt e un fucile Winchester, seccatissimo perché “quegli orribili personaggi che sentivamo pestare con gli stivali sul nostro tetto potevano anche portarmi in tribunale se uno di loro fosse caduto. Roba da dar fuori di matto. Avrei voluto dar fuoco a quella gente”.
Quella di Dylan non è solo una ritirata dalla celebrità (“Tony Curtis, l’attore, una volta mi aveva detto che essere famosi è già un lavoro, è una cosa a parte. E Tony aveva assolutamente ragione”). E’ soprattutto una reazione contro la trasfigurazione non tanto in un monumento ma in una bandiera. Epiteti come “leggenda, icona, enigma (Buddha vestito all’europea era il mio preferito) e simili” sono “gestibili”. Si tratta di “titoli placidi, innocui, vieti”, facili da ignorare. “Profeta, Messia, Salvatore” gli danno sui nervi. Dylan le prova tutte per levarseli di dosso, o così gli piace riferire. Per parte degli anni Settanta, prova a farsi dimenticare.
Andai a Gerusalemme e mi feci fotografare al Muro del Pianto con uno zucchetto in testa. La fotografia fu trasmessa istantaneamente in tutto il mondo e i giornali scandalistici mi trasformarono subito in un sionista. Questo mi aiutò non poco. Di ritorno, registrai in fretta un disco che aveva l’apparenza di un country-western e feci in modo che avesse un suono ben imbrigliato e addomesticato. I critici musicali non sapevano come giudicarlo. (…) Quello che Herman Melville scrisse dopo Moby Dick passò largamente inosservato. I critici pensavano che avesse superato il limite della letteratura e, quanto a Moby Dick, consigliavano di bruciarlo. Quando Melville morì era quasi del tutto dimenticato. Io avevo sperato che nel momento in cui i critici avessero squalificato il mio lavoro mi sarebbe successa la stessa cosa, che il pubblico mi avrebbe dimenticato.
Non succede, e il quarto capitolo di Chronicles è dedicata anche alla successiva rincorsa all’ispirazione, quando negli anni Ottanta incide Oh Mercy, album con almeno un paio di capolavori come Most of the Time e Where Teardrops Fall (anche se la canzone che scrive per prima è quella che apre l’album, Political World). Il processo è faticoso fino al momento in cui capisce che “io non avevo intenzione di trovare un modo nuovo di esprimere me stesso, tutte le mie maniere erano intatte così come lo erano da anni. Non c’era molta possibilità di cambiare ormai”. Dylan si sentiva obbligato a sconfessare le aspettative degli altri ma faticosamente, col tempo, arriva a far pace con le proprie. Oh Mercy è una fatica, sono discussioni e dubbi, tentativi ed errori. Alla fine “c’è qualcosa di magico in quel disco”. “Bisogna vivere con quello che ti offre la vita, fare in modo che le cose siano della misura giusta per noi. La voce in quel disco non sarebbe mai stata quella del martirizzato”.
Il Dylan che esce da Chronicles è tre cose assieme: un musicista innamoratissimo della musica, anche della sua; un menestrello che ha fatto abbondanti incursioni nel campo della poesia e le rivendica; il più grande demistificatore delle sue canzoni.
In Desolation Row collocava Ezra Pound e T.S. Eliot nella torre di comando a fare a pugni (in concerto De André cantava “Agnelli e Indro Montanelli”), ma Pound non l’aveva mai letto, “so che aveva simpatizzato per i nazisti durante la Seconda guerra mondiale e che aveva fatto trasmissioni antiamericane alla radio italiana” mentre “mi piace T.S. Eliot. Lui sì che valeva la pena leggerlo”. “Voltaire, Rousseau, John Locke, Montesquieu, Martin Lutero (…) era come se li conoscessi, come se avessero vissuto dietro casa mia”. Ma “più che altro leggevo libri di poesia, Byron e Shelley e Longfellow e Poe”. Nel suo apprendistato newyorkese (questo nel film non si vede) ne divora in quantità, si esercita a mandarli a memoria, cerca di capire come gestire parole e suoni. “Leggevo molte pagine ad alta voce e mi piaceva il suono delle parole, il loro linguaggio. La poesia di protesta di Milton, Massacro in Piemonte, una poesia politica sull’assassinio di innocenti da parte del duca di Savoia in Italia. Era come i versi delle canzoni folk, perfino più elegante”. Per tutta la vita scriverà ballate più lunghe di quanto debbano essere, di solito sforbiciandole prima di cantarle, ma Murder Most Foul diffusa in piena pandemia dura diciassette minuti.
I sociologi dicevano che la televisione era un’arma omicida, che stava distruggendo le menti e l’immaginazione dei giovani, e che la loro capacità di attenzione si stava riducendo drasticamente. Forse è vero, ma anche la canzone da tre minuti stava facendo la stessa cosa. Sinfonie e opere sono incredibilmente lunghe ma il pubblico non dà l’impressione di trovarsi spaesato o di non seguire il filo del discorso. Con una canzone di tre minuti l’ascoltatore non deve ricordare niente che sia successo venti o nemmeno dieci minuti prima. Essere capaci di operare connessioni non è richiesto. Niente da ricordare.
Non s’è mai visto un cantante dire che se la televisione rincoglionisce, lo stesso fanno le canzoni, rivendicare il concorso di colpa. La terapia che si prescrive da solo è leggere e memorizzare poesie sempre più lunghe.
L’altra cosa che gli piace, e in questo non smetterà mai di essere un cantante folk, sono le storie. “Storie come quelle di Edgar Rice Burroughs, che aveva scritto di un’Africa mitica. Luke Short e i suoi mitici racconti western. Jules Verne e H.G. Wells erano stati i miei preferiti, ma era accaduto prima che scoprissi i cantanti folk. In una canzone racchiudevano un libro intero, tutto in poche strofe”. Dylan non ricorda di preciso quando gli sia venuto in mente di scrivere canzoni, racconta d’aver calcato le scene la prima volta nella recita delle elementari, parla di un padre per cui un artista è qualcuno che dipinge e di una madre che a suo modo lo incoraggia, socchiude la finestra su un percorso creativo che è in parte assorbire come una spugna liriche e biografie (da Robert E. Lee a Teddy Roosevelt) e in parte è “imparare a comprimere cose e idee”, metterle tutte in una strofa.
Si dipinge come lettore di Machiavelli, e ancor più di Clausewitz, e ancor più di Tucidide, perché la politica non ha niente a che vedere con la morale e chi ti racconta il contrario ti sta menando per il naso. “Il mondo va così e niente lo cambia. Pazzo e scombinato com’è, bisogna guardarlo dritto negli occhi”. Spiega che l’unico leader che gli stesse simpatico era il senatore dell’Arizona, Barry Goldwater, che gli ricordava l’attore Tom Mix, e tutto ci stupisce fuorché che i suoi colleghi non capissero il perché. Gli anni della contestazione, delle lotte per i diritti civili, della protesta contro il Vietnam riemergono dalla memoria non come una marcia trionfale ma come un momento di conflitti laceranti che in confronto la polarizzazione dei nostri giorni è “una passeggiata nel bosco”, per usare un’espressione che a Dylan piace molto. Meglio, a ogni modo, andare a funghi che invischiarsi in lotte fra il torto e la ragione che finiscono immancabilmente a parti invertite. Ce l’ha ancora con Joan Baez che “aveva inciso una canzone di protesta su di me che veniva molto trasmessa per radio, insistendo che io uscissi di casa, prendessi il comando e mi mettessi alla guida delle masse, che comandassi la crociata”. Non gli dispiace che le sue canzoni abbiano toccato “un nervo” ma si arrabbia con chi le riduce alle parole, “allora perché Duane Eddy, il grande chitarrista di rock and roll, ne aveva registrato un album di versioni puramente strumentali?”
Detesta la pubblica adorazione perché “la creatività dipende molto dall’esperienza, dall’osservazione e dall’immaginazione, e non funziona se uno di questi elementi non è presente. Ormai per me era impossibile osservare qualunque cosa senza essere osservato”. Per il futuro Premio Nobel per la letteratura, la musica è più sacra delle parole, e queste ultime meritano di essere ascoltate per come suonano, non perché sono “vere” (men che meno “giuste”). Gli eventi con la E maiuscola hanno la stessa funzione delle battaglie e della vita dei generali: sono pretesti per scrivere ballate. Quanto all’attualità e alle notizie, preferisce i giornali vecchi a quelli nuovi.
Il mondo moderno, con tutte le sue folli complicazioni, destava molto poco interesse in me. Non aveva rilevanza, non aveva spessore, non mi seduceva. Le cose che davvero mi emozionavano, che per me restavano di vera attualità, erano l’affondamento del Titanic, il ciclone di Galveston, John Henry che menava colpi col suo piccone d’acciaio, John Hardy che sparava a un uomo mentre lavorava alla linea ferroviaria della West Virginia. Tutto questo per me era il presente, trasformato subito in canzone ed eseguito così com’era, sotto il cielo. Queste erano le notizie che per me erano importanti, che io seguivo e delle quali prendevo nota.
Forse le persone si dividono in due tipi: quelle che pensano di poter ridisegnare il mondo con penna e righello
, e quelli che sono contenti se riescono a fissare in qualche modo i colori di un tramonto in una foto scattata col cellulare. E poi magari giocano con lo zoom e s’inventano che la foto è fatta ai Caraibi perché gli viene bene raccontarla così, senza neppure domandarsi se gli altri ci crederanno. Il mondo sarebbe probabilmente un posto migliore, se gli individui del primo tipo si sforzassero almeno di capire quelli del secondo.
Bob Dylan, Chronicles (Vol. 1) (2004), Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 270.