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Globalizzazione è diventata una parola ambigua. Non sono sicuro che ci intendiamo, quando ci capita di usarla. Nella discussione pubblica italiana, per esempio, , chi più se la prende con la “globalizzazione” è anche chi più sostiene di difendere gli “imprenditori”. Ma se non gli imprenditori, di preciso chi la fa la globalizzazione?
Qualche mese fa Treccani ha pubblicato in italiano Gli ultimi re di Shanghai, un libro del giornalista Jonathan Kaufman (a lungo al Wall Street Journal). Kaufman si è messo sulle tracce di due grandi famiglie di ebrei babilonesi, i Sassoon e i Kedourie, che da Baghdad prima si spostano in India e poi di lì a Shanghai e infine, dopo la lunga marcia di Mao, da Shanghai a Hong Kong. Così almeno farà Lawrence Kedoorie, mentre Victor Sassoon, spiazzato dalla rapida evoluzione degli eventi politici, dovrà riparare negli Stati Uniti.
Il capostipite della dinastia Sassoon, David, annusa gli affari mescolandosi “con i capitali del porto, parlando con loro in arabo, persiano e turco”. E’ così che intuisce che “lo sviluppo dei cotonifici industriali in Inghilterra avrebbe probabilmente accresciuto la domanda di cotone indiano”. Gli imprenditori si comportano così tutti i giorni, anche quando non frequentano le banchine.
Elly Kedoorie, industriale e banchiere quantomai accorto, comincia presto, sin dagli anni Venti, a comprendere che Hong Kong offre più garanzie della Shanghai dove ha fatto fortuna. Le sue scelte dipendono in parte dal desiderio di evitare quello che oggi chiameremmo il “rischio Paese”, di limitare l’effetto dell’incertezza politica sulle sue imprese. Ma, in ultima istanza, dipendono da opportunità di arbitraggio e da intuizioni sulla desiderabilità di una certa produzione, di un certo commercio. La scelta di “elettrificare” Hong Kong pare ovvia, col senno di poi, come tutte le grandi idee imprenditoriali. Non lo è, però, finché ancora di un’idea si tratta, e fintanto che non arriva qualcuno che ne intravede i contorni e ne fa una “cosa”.
Elly Kedoorie sposò una donna inglese, Laura Mocatta, e avrebbe tranquillamente potuto trasferirsi in Inghilterra, come fecero altri esponenti della sua famiglia. Non lo fa perché, per quanto ricco fosse diventato e per quanto estesi fossero i confini del suo Impero, nell’Inghilterra di inizio Novecento egli era e restava un ebreo. In quella stessa Shanghai in cui monta l’ostilità per gli stranieri e piano piano cominciano a farsi strada le idee socialiste, magari i cinesi guardano male i Kedoorie per quanto sono ricchi, ma sono del tutto indifferenti al loro essere ebrei.
La Shanghai fra le due guerre è anche quella nella quale Cornelius Vander Starr sviluppa la sua compagnia assicurativa, che in America diventerà AIG. E’ una città dove sono il cosmopolitismo e l’apertura al nuovo a scatenare le energie imprenditoriali.
La politica è bravissima a fare fuggire gli investimenti ma questi avvengono non perché l’abbia deciso un Parlamento o una cupola. Accadono semplicemente perché il mondo è pieno di imprenditori che, quotidianamente, partono alla ricerca delle proprie convenienze, sviluppano nuovi rapporti di collaborazione, abbracciano idee e metodi nuovi. La “globalizzazione” è questo. Fermarla significa voler fermare quei tipi lì.
Jonathan Kaufman, Gli ultimi re di Shanghai. La straordinaria storia di due dinastie ebree dalle guerre dell'oppio alla Cina dei nostri giorni (2020), Roma, Treccani, 2022, pp. 353.