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La fiducia da preservare, whatever it takes
Non so che cosa avremmo detto se Giuseppe Conte avesse convocato una “cabina di regia” per varare nuove restrizioni Covid il 23 dicembre, giusto in tempo per mandarci di traverso la cena della vigilia. Una delle virtù di Mario Draghi, rispetto al suo predecessore, è che non usa i social e quindi anziché programmare una diretta Facebook natalizia ieri ha incontrato la stampa, preparando il terreno per gli annunci che arriveranno oggi.
La linea del premier è quella sintetizzata al meglio dalla frase “c’è poco da riflettere”, pronunciata in occasione della richiesta di un tampone da esibire all’ingresso in Italia anche da parte dei cittadini europei vaccinati. Civil servant di professione (professione di tutta una vita, con l’eccezione della parentesi in Goldman Sachs), Draghi è Presidente del Consiglio in ragione di un cursus honorum unico, nel nostro Paese e non solo. La sua leadership è battezzata dal prestigio personale e dall’opinione diffusa che egli abbia pieno dominio delle questioni economiche, oltre a un rolodex che gli rende facile l’accesso a qualsiasi interlocutore. Ma se il tecnocrate Draghi è noto anche alle folle non è per i tanti meriti inanellati nell’esercizio delle sue funzioni, per il “Testo unico della finanza” o per le “Considerazioni finali”, belle, limpide e sintetiche, dei tempi della Banca d’Italia. Draghi è Draghi per il suo whatever it takes, per la capacità di trasmettere sicurezza, per un carisma che travalica il ruolo. Oggi, innanzi alla variate Omicron, cerca di mostrarsi alla stessa maniera: risoluto, efficace, “c’è poco da riflettere”.
Forse però dopo un anno e mezzo sulla pandemia ci sarebbe da riflettere. Andrebbero soppesati benefici e costi delle misure prese col tempo, bisognerebbe che qualcuno provasse se davvero “la ffp2 sui mezzi pubblici vale un lockdown”, sarebbe opportuno imparare a “contare” non solo i contagi quotidiani ma anche, per esempio, gli effetti della chiusura delle scuole, avendo una qualche idea di che cosa comportano per la formazione del capitale umano e per la serenità psicologica dei ragazzi (che è, nel medio termine, un costo pure per i sistemi sanitari). A una manciata di ore dalla cabina di regia, il premier ha detto che “per ora non parliamo di lockdown per i non vaccinati ma ogni risposta è sul tavolo”.
In questa circostanza, il governo Draghi ha seguito in pieno il sentiero tracciato dal precedente: fare filtrare ipotesi sulla stampa, vedere l’effetto che fanno, poi decidere. L’idea di chiedere un test per il cinema sembra tramontata: per quanto lontane dal vissuto delle persone possano essere le nostre élite, qualcuno deve avere spiegato ai ministri che a 15 euro il tampone una famiglia media rischiava di spendere più per il film pomeridiano che per il pranzo di Natale. In compenso ora si discute di restringere il tempo di validità del Green Pass dopo la seconda dose (e dopo la terza? boh), di obbligare all’uso della mascherina all’aperto (proposito che al premier spagnolo Sanchez è valso le critiche degli esperti), di esigere il tampone in determinati luoghi a coloro che si sono vaccinati ma non hanno ancora la terza dose (non sarebbe a questo punto utile anche un tatuaggio sulla fronte, così da distinguere più velocemente non vaccinato, mono vaccinato, bi vaccinato, tri vaccinato, eccetera?), di usare solo PCR e non test antigenici (una “furbata” per ridurre il numero di positivi riscontrati?), di obbligare all’uso delle mascherine ffp2 al chiuso. Si tratta di misure che, abbiano senso o meno, richiederebbero grande capacità di tracciamento e abbondanza di tamponi e mascherine, nonché una distribuzione capillare degli stessi. Ce li abbiamo?
Il premier ritiene che lo stato di emergenza “sia una necessità” (sul tema rimando ai lavori, sempre molto opportuni, di Vitalba Azzollini) e che vada fatto di tutto per mantanere la posizione di “vantaggio” che abbiamo rispetto a Omicron. In realtà di Omicron ancora sappiamo poco. I dati del Sudafrica sembrano indurre un po’ di ottimismo, ma quello è un Paese giovane e nel quale siamo attualmente nella stagione estiva. Con il tasso di riproduzione di Omicron, le misure restrittive sono un palliativo: la variante è già con noi ed è destinata a diventare in breve il ceppo dominante.
L’idea che nel dubbio sia meglio procedere a una stretta è prevalente non solo in Italia. E’ tuttavia un’idea pericolosa, che rischia di erodere ulteriormente la fiducia nelle istituzioni. I Paesi occidentali hanno concentrato risorse e speranze sulla vaccinazione. L’alta percentuale di vaccinati con doppia dose, in attesa della terza, unita al numero di persone che hanno già avuto il Covid in forme più o meno lievi fa sì che oggi la popolazione suscettibile sia una frazione di quella del marzo 2020. L’efficacia dei vaccini contro Omicron potrà essere inferiore ma non è zero, soprattutto dopo il booster. Limitare di nuovo la libertà di movimento, oggi, significa smentire la politica degli ultimi mesi con un probabile effetto boomerang in caso sia necessario un altro richiamo. I NoVax da mesi ripetono che per controllare l’epidemia servono tamponi e non vaccini, il governo dopo averli combattuti aspramente ora parrebbe dar loro indirettamente ragione. Cosa ne dedurrà, il cittadino “esitante”? E’ difficile che le perplessità si sciolgano, se passa l’idea che il vaccino non sia abbastanza per tornare a vivere in relativa sicurezza.
Rispetto all’economia del Paese, l’esito di eventuali restrizioni potrebbe essere quello di fare deragliare la ripresa di cui tanto ci siamo pavoneggiati con noi stessi. Benissimo gli elogi della signora von der Leyen e l’investitura a “Paese dell’anno” da parte dell’Economist. Ma andiamo verso un 2022 già contrassegnato da importanti fattori di rischio: l’inflazione in crescita,la crisi energetica, i venti non tremendamente propizi in politica internazionale (Ucraina). Che succede se aggiungiamo a tutto questo una frenata degli scambi e dei consumi autoindotta? Il governo è “pronto a sostenere l’economia”, ovviamente di nuovo a debito. Ma il problema non è solo di quattrini: è di aspettative. Può reggere il nostro tessuto produttivo all’idea che dobbiamo rassegnarci a una socialità a singhiozzo? Può reggere la nostra democrazia all’ennesima girandola di norme, che disorientano le persone, rendono caotico e imprevedibile il contesto nel quale si situano le più banali scelte di vita, cambiando notte tempo per giunta sulla base di processi decisionali che restano opachi?
Scrivendo sulla mascherina all’aperto, Gilberto Corbellini e io abbiamo ricordato che questa e altre misure sono eminentemente segnaletiche:
Lo stesso obbligo di mascherina nelle vie del centro lo è. Come si può effettivamente verificare che tutte le persone la portino? Cosa si fa con coloro che l’abbassano perché stanno facendo uno spuntino? Con quelli che l’abbassano per parlare al telefono? Soprattutto, la mascherina chirurgica dovrebbe essere portata al massimo per circa 90 minuti. In ambienti adeguatamente sterilizzati, come le sale operatorie, le mascherine vengono cambiate di continuo. Quante sono le persone che portano la stessa mascherina chirurgica per giorni? Quante quelle che la portano facendo sporgere il naso (anche semplicemente per evitare che si appannino gli occhiali)? Quale straordinaria efficacia può avere mettersi la mascherina per fare dal tavolo del ristorante al bagno, magari senza incrociare nessun altro cliente? Perché i colpi di tosse del vicino di tavolo dovrebbero essere pericolosi quando ci alziamo in piedi, e innocui finché rimaniamo seduti?
Ovviamente, anche una mascherina mal messa o usata troppo a lungo ha un effetto di qualche tipo sul contagio. Ma la ratio dell’obbligo all’aperto e anche se c’è distanziamento, dove il rischio di contagio è, per usare un eufemismo, bassissimo o assente, è un altro. È una sorta di avviso, un reminder alle persone che in qualche modo si sono faticosamente riappropriate della loro vita di non dare nulla per scontato, che la pandemia continua a infuriare. Memento mori.
Abbiamo un po’ l’impressione di rivivere il giorno della marmotta. Siamo sempre, nella retorica, al marzo 2020. E’ difficile sostenere che gli italiani siano stati irresponsabili negli ultimi due anni ed è offensivo credere che si siano vaccinati in tanti, e con tanto entusiasmo, solo perché spaventati. C’è un capitale, per certi versi insperato, di fiducia nelle istituzioni (grazie anche all’azione straordinaria della miglior nomina di Draghi, il generale Figliuolo). Di fiducia ha bisogno la società italiana e ha bisogno la nostra economia. Quella sì andrebbe preservata costi quel che costi.