“Non m’interessa chi scrive le leggi di un Paese, purché mi lascino scrivere i suoi manuali di economia”. Premio Nobel 1970, Paul Samuelson è stato l’autore del manuale di economia, Economics, più venduto e famoso forse di sempre. La citazione è posta a esergo di questo A scuola di declino per spiegare il lavoro dei tre autori: un professore di liceo, Andrea Atzeni, e due professori universitari, Marco Bassani e Carlo Lottieri. Atzeni, Bassani e Lottieri sono convinti che le idee abbiano conseguenze e nello specifico che le idee politiche, ovvero un certo modo di vedere il mondo, di mettere a fuoco le relazioni sociali, d’intendere la natura del potere, si trasformino in atteggiamenti diffusi che possono, almeno in parte, spiegare anche la performance economica di un Paese. Di qui, il titolo.
Gli autori hanno passato al microscopio testi adottati nelle scuole dagli anni Novanta in avanti. Soprattutto di storia ma pure di geografia e filosofia. La lista completa è a fondo libro e l’impressione che ne deriva è che, per quanto non tutti abbiano una stazza intellettuale paragonabile a quella del Nobel di Cambridge, Massachusetts, scrivere libri per le scuole è una occupazione ancillare di molti pesi massimi della cultura italiana: da Maurizio Ferraris ad Alessandro Barbero, da Andrea Giardina a Carlo Sini. Senza dimenticare stelle di altre generazioni come Nicola Abbagnano o Ludovico Geymonat. E’ anche abbastanza chiaro che una certa visibilità mediatica male non fa: fra gli autori di una Geografia dei continenti extraeuropei uscita per la prima volta nel 1994 e più volte ristampata ci sono Lucia Annunziata ed Enrico Deaglio. Il docente che adotta il libro, quindi, non è insensibile al luccichio dei riflettori.
Questo per dire che non solo un Paese assomiglia ai suoi libri di testo, ma è vero anche il contrario. Non si tratta di lavori la cui finalità pedagogica implica la selezione di un autore specializzato nel trasferire conoscenze alle nuove generazioni in un linguaggio accessibile. Ma di un’industria che deve accalappiare il docente e pertanto ricorre ad autori di cui questi ha sentito parlare, che traffica con temi e posizioni ai suoi occhi rilevanti, eccetera. Non è detto che manuale sia sempre firmato da un intellettuale pubblico di successo. Quando capita, però, male non fa.
Secondo Atzeni, Bassani e Lottieri,
Le giovani generazioni non conoscono abbastanza “inglese, informatica e impresa”, le “tre i” senza le quali non si dà sviluppo. Ci sembra di poter dire di aver individuato un altro grande fattore di ritardo culturale che pesa come un macigno sul futuro dell’Italia, inizia per “i”, ma non è una carenza, bensì una sovrabbondanza: ideologia. La mentalità avversa al “capitalismo” – che le classi colte italiane tramandano di generazione in generazione almeno dai primi del Novecento – si pone come una sciolina adatta a intraprendere la pista del sottosviluppo intellettuale ed economico (…) Nei volumi grazie ai quali si formano culturalmente le nuove generazioni (e da cui quindi traggono le loro informazioni di base sulla realtà economica e sociale) emerge con chiarezza la tradizionale avversione della cultura italiana verso la società industriale e soprattutto verso la cultura dell’impresa privata, del mercato e della concorrenza. Al fondo di questa incapacità a comprendere la moderna economia e le logiche competitive che la devono ispirare vi sono importanti e radicate ragioni ideologiche, ma assai spesso anche semplice ignoranza.
Nei testi che analizziamo si trovano “percezioni” e “rappresentazioni” che hanno senza dubbio un’origine ideologica, ma anche altre dovute alla scarsa conoscenza, a voler essere benevoli. E la convivenza di questi due gravi problemi porta persino autori lontani da intenti politici a condividere la stessa mentalità anticapitalista
Perlomeno nei libri di testo, la mentalità anticapitalistica si riproduce con una sorta di automatismo. E’ una “camera dell’eco” impenetrabile. Il docente delle scuole superiori si è formato in un ambiente culturale nel quale alcune idee erano già dei luoghi comuni. Cerca dunque volumi da sentire affini. Questi a loro volta sono spesso scritti da intellettuali di richiamo che, specie nell’ambito di un prodotto particolare come un manuale, possono sfidare l’opinione dominante il giusto e non di più. La loro credibilità pedagogica si incrinerebbe, se si discostassero troppo dal già detto. Per questo, anche l’intellettuale famoso ma non necessariamente di sinistra deve negoziare, se vuole vendere alle scuole, con le sensibilità dei lettori. Libri e autori così entrati in circolazione vi rimangono, perché i docenti delle generazioni successive sono, di norma, ex studenti fra i più brillanti, del genere che hanno appreso vigorosamente la lezione di quei manuali e che si sono magari invaghiti di chi li ha scritti.
Lasciate ogni speranza voi ch’entrate (al mercato dei manuali). A spezzare questa spirale non è riuscito neanche il crollo dell’Unione Sovietica. Che ha fatto cambiare nome al Partito Comunista Italiano ma non ha sloggiato Marx dalla posizione del tutto peculiare che occupa nell’immaginario dei professori di liceo e nei libri di testo che lo tutelano. Egli appare tutt’ora come
(…) unico vate di tutti i rivolgimenti sociali e politici del suo tempo (e anche del nostro). La sua visione della società e della vita economica gioca il ruolo del tribunale ultimo dei processi storici. È chiaro che per gli autori dei testi scolastici non c’è davvero spazio per interpretazioni alternative rispetto a quella di Marx e dei suoi numerosissimi seguaci, apostoli ed epigoni. Marx viene qui usato come una sineddoche, come il nome di un'intera tradizione onnipervasiva. Esiste un solo canone e nessuna deviazione. Il marxismo si presenta come la “scolastica” del Novecento.
Per capirsi, “nel momento in cui in un manuale di storia s’illustra il pensiero di Adam Smith, ad esempio, si sostiene come non sia il caso di soffermarsi sulle «analisi dedicate alla divisione del lavoro in fabbrica ([visto che] alla loro critica provvederà Karl Marx)»”. Le tesi di Smith saranno smentite dalla storia («spetterà alla storia dell’Ottocento sottoporre a severa critica le speranze del liberismo smithiano») ma, ammesso che la storia somministri carezze o colpi di frusta, non si capisce bene perché il 1929 debba esserci maestro e il 1989 no. “A ben guardare, Marx e la sua tradizione sono le uniche voci autorevoli non solo in storia e filosofia, ma anche nei capitoli dedicati ad altri temi: basti pensare all’Illuminismo. In questo caso, ad esempio, l’ultima parola è lasciata tipicamente alla Scuola di Francoforte (Adorno e Horkheimer) e alla sua rilettura hegelo-marxiana della modernità tecnologica”.
Atzeni, Bassani e Lottieri non trovano certo disdicevole che un liceale incontri il nome di Marx nei suoi studi, né che Marx gli venga presentato come un gigante del pensiero. Ci mancherebbe. Ciò che segnalano è che gli studenti non si avvicinano al pensiero di Marx come a un altro quadro nella galleria della storia delle idee. Invece il marxismo permea la prospettiva dei manuali, resta una sorta di termine ad quem della storia e della filosofia (per fortuna, non della biologia o della matematica) e dunque il marxismo non si “studia”, semplicemente si assorbe, senza darsene conto. Il libro dedica un’ampia sezione al modo in cui la biografia del filosofo di Treviri viene abbozzata dai manuali, con toni che dire agiografici è poco. Il Cristo dei Vangeli, a confronto, appare una figura intarsiata di carenze e difetti. Il che fa sorridere in un contesto intellettuale quale è il nostro nel quale si destruttura tutto quel che c’è da destrutturare e la vita dei pensatori del passato è scomposta e riletta attraverso categorie che fanno sostanzialmente di qualsiasi essere umano di sesso maschile un razzista e uno stupratore. Fa piacere che Marx ed Engels abitino una nicchia sicura, al riparo dallo spirito dei tempi.
Invece, “nei manuali la società civile, lo Stato borghese e, con essi, l’economia classica e il pensiero liberale sono oggetto di una critica serrata e senza quartiere”. Il marxismo è presentato come il pinnacolo dell’evoluzione della teoria economica, evitando di menzionare il fatto che quindici anni dopo la pubblicazione del primo libro del Capitale le scoperte scientifiche (l’aggettivo non è fuori luogo) dell’economia marginalista lo aveva già confinato nella pubblicistica politica. La Rivoluzione industriale assomiglia alla fotografia che ne fece La condizione della classe operaia in Inghilterra di Engels: saggio importantissimo, come reportage in presa diretta, ma non proprio al passo con la più recente storiografia.
Lo sviluppo industriale che l’Europa conosce nel corso dell’Ottocento appare essenzialmente una iattura. La modernizzazione industriale ha la tendenza ad allontanare le classi sociali e a far venire meno quei «legami comunitari che [nella società rurale] offrivano ai singoli una rete di protezione in caso di necessità, una solidarietà affettiva ed economica». Responsabile di causare alienazione, alcolismo, miseria e criminalità, il sistema industriale del capitalismo emergente esige quindi di essere “regolato” il più possibile.
Passi come questo sono ricondotti da Atzeni, Bassani e Lottieri a una saldatura fra marxismo (orecchiato) e terzomondismo, tant’è che fra i pochi manuali che offrono una visione più equilibrata ce n’è uno opera di “marxisti veri”, “autori che rimangono sempre fedeli alla più autentica linea dell’autore de Il capitale. Dunque rifuggono dalle più semplicistiche spiegazioni antioccidentali dell’imperialismo europeo e dell’espansione verso Ovest degli Stati Uniti, oltre a evitare letture dello sviluppo industriale filtrate dal trito ecologismo odierno”. Parimenti non abbracciano la tesi che la Rivoluzione industriale avrebbe peggiorato gli standard di vita delle fasce più povere della popolazione e riconoscono invece che
Né si può sostenere che il proletariato moderno vivesse in una condizione peggiore delle classi subalterne preindustriali, perché la condizione operaia era comunque ben diversa da quella degli schiavi e dei servi della gleba, i quali non disponevano liberamente neppure della propria forza lavoro.
Chiosano Atzeni, Bassani e Lottieri: “è appena il caso di ricordare come tali giudizi richiamino la condanna marxiana della vita rurale contadina e la sua approvazione della società industriale”.
In linea generale, però,
Sul piano della storia più precisamente economica e sociale, d’altra parte, tutto lo sviluppo industriale del secondo Ottocento è ricondotto all’idea che il capitalismo sia una concezione intimamente “imperialistica”: secondo la nota tesi leninista. Non solo quindi le industrie nascono e si sviluppano grazie a cartelli e aiuti pubblici, ma nella loro natura “monopolista” spingono le nazioni ad intraprendere una serie di avventure militari nel Terzo mondo la cui vera natura, però, sarebbe eminentemente economica
Atzeni, Bassani e Lottieri non negano che si tratti di una tesi importante, per il rilievo che ha avuto. Ma contestano che le si possa consegnare il monopolio dell’interpretazione di quanto avvenuto negli ultimi due secoli.
C’è un che di paradossale. Da anni parliamo continuamente di fine delle ideologie, il timore diffuso è che i giovani abbiano un approccio eccessivamente distaccato rispetto alla politica, che siano indifferenti rispetto ai suoi grandi temi. I manuali delle scuole rivelano tutt’altro. Ovviamente, non basta che un testo venga scritto e nemmeno presentato come fonte autorevole a un pubblico di studenti, perché questi se ne abbeverino. La maggioranza delle persone, del tutto legittimamente, preferisce altre attività a studiare e riduce il proprio impegno scolastico al minimo necessario per guadagnarsi un titolo senza essere infastiditi. Eppure, questo non significa che nozioni ripetute di malavoglia o mal digerite non scavino un solco.
Atzeni, Bassani e Lottieri suggeriscono che
mentre negli anni Settanta i docenti si trovavano studenti marxistizzati consapevolmente altrove, oggi i professori, tenacemente abbarbicati a un armamentario ideologico del quale sono pieni anche i loro testi, indottrinano studenti che per lo più sono disinteressati alla politica. Se i giovani di mezzo secolo fa erano dei “marxisti immaginari”, quelli di oggi sono resi dai loro professori, così come dai libri di testo adottati, marxisti (ed ecologisti) loro malgrado e inconsapevoli.
Lo studente desideroso impossessarsi davvero di una materia o di un tema non ha mai avuto a disposizione tanti strumenti quanti ne ha oggi: apre una finestra sul suo computer e può incontrare nomi e pensieri che lo porteranno a correggere l’impressione maturata in aula. Ma lo studente che mira alla sua onesta sufficienza, e per farlo ripete quel che ha letto come può, non si accorge minimamente di aver adottato una postura politica. Eppure, quella cosa che ha sibilato per portare a casa il suo bel 6 si sedimenta, resta lì nel corso degli anni, senza che neppure se ne accorga informerà il suo modo di vedere il mondo. E questo, come sottolineano Atzeni, Bassani e Lottieri, è particolarmente vero per chi poi non si occuperà di scienze sociali, per la futura infermiera o il futuro ingegnere, destinato ad affezionarsi a delle idee sul mondo che gli vengono dagli anni del liceo.
A scuola di declino è fatto per intristire il lettore. La ragione della tristezza, secondo gli autori, è l’ipoteca che l’editoria scolastica ha messo sul nostro futuro. Un Paese che aderisce toto corde all’anticapitalismo tenderà a non apprezzare socialmente il ruolo dell’imprenditore e ad adottare, più o meno consapevolmente, una serie di comportamenti la cui conseguenza di lunga lena è una crescita economica più contenuta. Ma è un libro deprimente anche per la mappa degli intellettuali pubblici, pedagoghi part time, che disegna. Un ambiente culturale stantio che, per fare solo un esempio, non ha recepito nulla della nuova lettura storica della Rivoluzione industriale che è stata il grande cantiere della vita intellettuale, per esempio, di un Joel Mokyr.
Nessuno dei testi esaminati da Atzeni, Bassani e Lottieri è citato con nome e cognome dell’autore o degli autori. La cosa è valsa loro una bacchettata di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera, secondo il quale la critica all’errore richiede la menzione dell’errante. Gli autori sostengono che “il motivo di questa scelta è semplice: non abbiamo alcuna intenzione censoria nei confronti di studiosi di altro orientamento culturale. Anzi, riteniamo che la massima libertà nel campo delle idee e delle interpretazioni debba essere sempre ben salutata”. Ognuno manifesta i propri valori come ritiene. Atzeni, Bassani e Lottieri vedono nell’unanimismo ideologico dei libri di testo un problema per il Paese, ma con questa scelta vogliono dichiarare il proprio assoluto rispetto nei confronti di qualsiasi tesi, libro e autore. E’ una questione di priorità: la libertà di pensiero e di parola viene prima di tutto, anche di quel poco o quel tanto di fairness nella presentazione di autori e pensatori che ci si aspetterebbe almeno in aula. Per inciso, immaginatevi l’effetto che farebbe un manuale liberale nel quale si sostenesse che Marx è un personaggio trascurabile nella storia del pensiero o che le lotte per salari più alti sono state irrilevanti per l’andamento dello standard di vita degli operai. Agli autori di A scuola di declino si può semmai rimproverare di non fornire elementi per valutare le dimensioni del campione da loro esaminato rispetto al complesso dei libri di testo, e quanto pesino i manuali citati in termini di adozioni. L’impressione, però, è che qualche dato di questo tipo avrebbe reso la lettura ancor più deprimente.
Andrea Atzeni, Luigi Marco Bassani & Carlo Lottieri, A scuola di declino. La mentalità anticapitalista nei manuali scolastici, Macerata, Liberilibri, 2024, pp. 160.
Complimenti prof. Ho condiviso il suo articolo su facebook. Speriamo.
Il brutto non è che sono "marxisti inconsapevoli" gli insegnanti di humanities, ma anche quelli di matematica 😅