La scienza stabilisce cosa sia un “fatto” in conseguenza di complessi processi di controllo. Durante tali processi, gli scienziati possono non trovarsi d’accordo, ma se la larga maggioranza di essi ritiene validi i risultati di un esperimento questi ultimi possono diventare un presupposto per finanziare nuove ricerche, entrare nei manuali o venire usati, per esempio, come prove in una perizia legale.
La ricerca scientifica produce “verità” sempre provvisorie, esposte alla possibilità di essere confutate. Potremmo dire che si regge su due principi. Jonathan Rauch li chiama rispettivamente la regola fallibilista e la regola empirica.
La regola fallibilista: “hai diritto a sostenere che un’affermazione è obiettivamente vera soltanto fintanto che può essere messa in discussione ed essa resiste ai tentativi di confutarla”.
La regola empirica: “qualsiasi cosa si faccia per verificare un’affermazione deve essere replicabile da altri, almeno in linea di principio, ottenendo il medesimo risultato. Nessuno che proponga un'ipotesi ha vita facile in ragione della sua posizione o del gruppo d’appartenenza”.
E’ questo processo di validazione che “è” la scienza. In qualche modo, che la scienza sia il modello al quale si ispirano o debbono ispirarsi i meccanismi su cui si reggono le opinioni pubbliche è un’idea più o meno esplicitamente condivisa dagli albori della storia del liberalismo. La realtà però si incarica di smantellare le nostre speranze: soprattutto oggi, quando i social media sembrano aver reso impopolare la vecchia massima di Daniel Patrick Moynihan: ognuno ha diritto alle proprie opinioni, ma non ai propri fatti.
Con questo libro (giustamente citato in uno degli articoli più interessanti delle ultime settimane, lo strepitoso pezzo di Jonathan Haidt sugli effetti dei social sulla democrazia americana), Jonathan Rauch, brillante giornalista statunitense, ci aiuta a mettere in ordine le idee. Rauch sostiene che la metafora del mercato delle idee, cara a molti di noi, è in larga misura fuorviante. Lascia intuire che la discussione pubblica sia una specie di piazza, sulla quale si reca chiunque lo desideri, portandoci la sua bancarella. In un mercato cittadino, alcune istituzioni sono fondamentali affinché le persone scambino, avendo una ragionevole fiducia gli uni negli altri. C’è il principio del caveat emptor, c’è un sistema di pesi e misure che si presumono affidabili, ci sono arbitri cui rivolgersi per dirimere le controversie, eccetera. Anche le idee hanno bisogno di qualcosa di analogo: di processi di validazione, che ci consentano di mettere a fuoco una “verità” che, per quanto sempre esposta a una possibile confutazione, abbia contorni che tutti riusciamo a vedere.
Rauch preferisce parlare di una “Costituzione della conoscenza” che
ha i suoi equivalenti di pesi e contrappesi (peer review e replica), separazione dei poteri (specializzazione), istituzioni di governo (società scientifiche e corpi professionali), voto (citazioni e conferme) e virtù civiche (sottoporre le proprie convinzioni alla verifica se si vuole essere presi sul serio). I membri della comunità che sostiene la costituzione della conoscenza non devono per forza essere d'accordo sui fatti; lo scopo di questa architettura è gestire i loro disaccordi. Ma devono essere d'accordo su alcune regole.
La scienza è data da queste regole e noi possiamo fare assegnamento su di essa proprio perché segue tali protocolli. Anche nel dibattito pubblico dobbiamo cercare meccanismi, inevitabilmente imperfetti, per fare qualcosa di simile. Non si tratta di “regole” e men che meno di immaginare dei “ministeri della verità”. Ma di coltivare e rafforzare prassi: penalizzare coloro che danno notizie false, stabilire l’uso di pubblicare le rettifiche con la medesima visibilità delle informazioni errate, considerare i nostri avversari intellettuali interlocutori da persuadere e non nemici da abbattere, e dunque comportarci di conseguenza.
Limitarsi a dare la colpa ai social e dire che ci hanno fatto perdere alcune buone abitudini del passato è troppo facile. Qui ho cercato di riflettere su come gli stessi intellettuali purtroppo non diano il buon esempio. I media “mainstream” hanno molte colpe, prima fra tutte aver replicato le nuove dinamiche tribali della rete, anziché provare a mantenere l’autorevolezza che viene non dalla carta ma dalla capacità di offrire una gerarchia delle notizie improntata a qualche criterio più solido che la conta dei likes. Come ha spiegato Martin Gurri, la “disintermediazione” dei vecchi produttori di notizie per ora ha lasciato spazio non al lumeggiare dell’innovazione ma al dilagare del caos.
E’ indubbio che se dobbiamo ricostituire un dibattito pubblico più civile, più franco, più fecondo ci attende un grandissimo lavoro. Non esistono bacchette magiche: servirà con tutta probabilità un mix di nuove abitudini e di esperimenti anche di carattere tecnologico (non avremmo social migliori, se per “condividere” un articolo ci fosse bisogno di dimostrare in qualche modo di averlo letto?). Poco possiamo attenderci dalle autorità pubbliche e molto dobbiamo pretendere da imprese, associazioni, gruppi di cittadini, formatori dell’opinione pubblica e consumatori di idee. Che un imprenditore geniale della Silicon Valley acquisti una piattaforma social in nome della libertà di parola è con tutta probabilità un’ottima notizia. Che ci siano libri che ci aiutano a riflettere, come questo di Jonathan Rauch, pure.
Jonathan Rauch, The Constitution of Knowledge: A Defense of Truth, Washington DC, Brookings Institution Press, 2021, pp. 280