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Anche il successo può nuocere alla reputazione. E’ il caso di Edmondo De Amicis, che oggi tendiamo a snobbare proprio perché ha scritto un best seller, Cuore, ormai troppo zuccheroso per il nostro palato.
Però che scrittore. Questo reportage di viaggio rivela una prosa travolgente. Ci catapulta nell’Istanbul di fine Ottocento, quando già traballava l’Impero ottomano, ma la città era “il più bel luogo della terra a giudizio di tutta la terra” eppure, avverte De Amicis, “un labirinto di formicai umani, di cimiteri, di rovine, di solitudini, una confusione mai veduta di civiltà e barbarie, che presenta un’immagine di tutte le città della terra e raccoglie in sé tutti gli aspetti della vita umana”.
De Amicis racconta il “pellegrinaggio di popoli decaduti”, Santa Sofia, la “repubblica dei cani”, la comunità italiana. Ma vorticose sono le pagine che dedica ai bazar, a quello che ci si vende e a come lo si vende. Il lettore ci troverà un sogno premonitore dei negozi vintage: “chi non ha mai visto una bottega di rigattiere orientale non può immaginare che stravaganza di stracci, che pompa di colori, che ironia di contrasti, che spettacolo a un tempo carnevalesco, lugubre e schifoso, presenti questa cloaca di cenci, in cui tutti i rifiuti degli arem, delle caserme, della corte, dei teatri, vengono ad aspettare il capriccio di un pittore o il bisogno d’un pezzente li riporti alla luce del sole”. Armi, profumi, pipe e tabacco (“messo in mostra sopra asticciole, a piramidi e mucchi rotondi, ognuno sormontato da un limone”) e tanto altro completano una rassegna che ci fa vivere una Istanbul che non c’è più, un po’ memoria un po’ sogno, luccicante e lurida, sordida e meravigliosa.
Edmondo De Amicis, Costantinopoli (1877), Torino, Einaudi, 2015, pp. 154